Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/28

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Se cercate saper chi son costoro che mi fan compagnia fra questi affanni, è de’ briganti e de’ bricconi il coro.

Chi vuol contarmi a forza i suoi malanni, chi dice: — Io venni, io feci, io dissi, io fei, chi va, chi viene e chi si cerca i panni.

Evvi un branco di ladri farisei, che, tosto che ciascun entra a la soglia, vi son d’intorno, e son da cinque o sei.

Non vai che preghi, pianga o che ti doglia io non vo’ lampa, e mi convien pagare, ancor che d’esser cieco avessi voglia.

E vi trovai fra gli altri un baccalare, che mi fa del sacente e del facondo con certo suo visaccio a trappollare.

Costui spasseggia grave e sputa tondo, arragliando coni ’asino di maggio, vuol tagliar a traverso il mappamondo.

Quel che non ha del buono né del saggio, puzza di rancio come una carogna, e ragiona col cui d’ogni linguaggio.

Li suona il naso a guisa d’una brogna, tosse, rugisce e spesso rutta il vino, e tiene fra le dita un po’ di rogna.

Ei porta un tabarro se// gonelino; fu prima balandrano e poscia saio; era giá nero, or va nel beretino.

Quando zurola il vento di rovaio, ch’entro la tana ogni animai s’appiatta, annidar se ne suol qui un centinaio.

Tutta la notte si dimena e gratta, e perché vuol far meco il cortegiano, questo suo drappo al capezzal m’addatta.

La patria vi dirò, ma piano piano: gli è calabrese, senza riverenza, e quel ch’ c peggio, vuol parlar toscano.