Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/29

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Qui dirò di piú, ch’ è di Cosenza, ed è di quei che noi chiamiam «pedanti», e tira il suo gilletto in consequenza.

Egli è per farmi dar di botto a’ santi, mi sputa di continuo ne la faccia con passi di dottrina ineleganti.

O fortuna crudel traditoraccia, o stelle ladre al nascer mio prefisse, ciascun il peggio, che mi può far, faccia.

10 non trovo che Giobbe mentre visse stesse in prigion giamai, benché con empio e gran flagel il gran Satan l’afflisse.

Che forse, sendo a noi specchio ed essempio di tanti tribulati e pazienti, ne saria riverito in piú d’un tempio.

Crepar di fame e aver gelati i denti; tener madonna in letto e in braccio stretta, e non poter rizzar i fornimenti;

aver talor da scriver all’ infretta e aver l’inchiostro duro, secco e bianco, carta bagnata e penna che non getta;

11 duol de la podagra e il mal di fianco: son come bagattelle a fronte al detto

«un non poter dormir ed esser stanco».

Il mangiar nostro non è buon ma schietto, quanto basta a strappar la nostra fame ed a tener lo stomaco ristretto.

Non ci curiam di latte o di pollame, l’intingolo spezzato e ’l saporetto son una minestruzza di fogliame.

L’insalata e ’l cardon mi par confetto, quand’ho insalata mi par d’esser papa, e spesso me la fo col pane schietto.

Uso l’aceto invece de la sapa, e la vivanda del cibo ordinario la cipolla esser suol, l’aglio e la rapa.