Pagina:Marino, Giambattista – Epistolario, Vol. I, 1911 – BEIC 1872860.djvu/56

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La tavola di V. S. a San Pietro è riuscita, al dispetto de’ maligni, mirabile e credo che ’1 signor cavalier Arpino gliene abbia scritto, il quale vive al solito suo affezionatissimo. Ma non si poteva dubitare del valore del signor Castello. Con che resto baciandole cordialmente le mani. E perdoni alla dettatura ed al carattere, perché scrivo all’ infretta.

Di Ruma [aprile 1605].

XXXVII

A UN AMICO

Lettera burlesca per l’entrata a Roma di un ambasciatore di potenza non amica agli Aldobrandini.

Della cavalcata teutonica che fu domenica non ve ne dirò altro, poiché fu piti semplice che il P.; e la piti bella e singoiar cosa che l’accompagnasse fu un cielo che rideva, con un’aria temperata e un splendore di sole cosí maraviglioso che, per Dio! era una giornata degna d’un di quegli antichi trionfi di Cesare. La pompa fu poverissima nello sproposito, e gli spropositi campeggiarono fra la disgrazia e indecenza; e il disordine, che suol sempre intervenire a simili feste, quel giorno vi comparse in guisa tale, che non si vide altro che una gran massa di bestie che rassomigliavano un essercito messo in fracasso. Quello che io osservai piú di mio gusto fu un maestro di paggi che vi avrebbe fatto impazzire. Era egli un omaccio grande e grosso di cinquantanni, con un viso arcigno in chiaro oscuro, la barba rasa ed i grandi occhiacci stralunati, che pareva Filippo Melantone. Cavalcava una mula secca e alta, di gambe fuor di misura, simile alla giraffa, con una valdrnppaccia di corametempestata di fango e di muffa, che rassomigliava la sbernia di un di quei cavalli del Trionfo della morte. Aveva doi stivali in potacchio o guazzetto con gli speroni, come quelli costá di Bartolomeo da Bergamo; e la briglia della bestia era di un misto corrottibile fra il cordovano e la fune, con le false redini di metallo, larghe quattro dita e fatte di getto, cred’io, da Donatello