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presenta nell’altro ramo del regno animale, i vertebrati, e specialmente in quelli che stanno al vertice, nei mammiferi e nell’uomo. I primi rappresentano un passato oramai chiuso in sè ed incapace d’ulteriore progresso: gli altri incarnano, nel regno animale, lo svolgimento vivo e presente dell’intelligenza, che si protende verso l’avvenire. — Non vi è quindi nessuna contraddizione fra questi due fatti: che la formica ci presenta una serie di istinti sociali, il cui risultato ricorda analoghi prodotti della civiltà umana: l’agricoltura, la pastorizia, lo stato, la guerra, la schiavitù; e che, presa per sè sola, come individuo, è un animale semplice, incapace d’una riflessione un po’ complicata, infinitamente superiore, è vero, agli altri insetti, ma inferiore nel tempo stesso all’ultimo dei mammiferi. Anche la sua intelligenza automatica però è, bisogna ricordarlo, il frutto di innumerevoli sforzi intelligenti compiuti da individui e poi accumulati e fissati organicamente attraverso la lunghissima vita della specie, che risale alle prime età geologiche.

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Non è dunque vero che tutta la vita dell’animale sia retta dagli istinti: ogni animale ha in maggiore o minor misura una certa spontaneità, un’intelligenza individuale, che del resto è stata l’origine prima degli istinti stessi. Tutti riconoscono dal più al meno questa verità: anche gli scolastici, come il p. Wasmann, che riducono tutta la vita animale all’istinto, intendono per istinto, come vedremo, un’altra cosa. La questione è ora di vedere di che cosa è capace questa spontaneità, quest’attività individuale della coscienza, che fa esperienze, reagisce, si adatta, e così modifica talora anche gli istinti. Le spontaneità dell’uomo si chiamano intelligenza e ragione; è capace l’animale di elevarsi fino a questo grado?

Se guardiamo alla storia della filosofia, vediamo disegnarsi due correnti. La maggior parte dei filosofi concedono all’animale una certa partecipazione all’intelligenza ed alla ragione: la psiche dell’animale differisce dalla nostra solo per il grado. Questa è l’opinione comune di tutti i filosofi antichi, a partire dai Pitagorici, e specialmente della scuola platonica1; eloquenti

  1. Bredif, De anima brutorum quid senserint praecipui, apud veteres, philosophi, 1863.