Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/297

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affabile del consueto, per cavargli di bocca quel che aveva da dire. Ma Ciolla non si apriva ancora. Parlava del tempo, dell’annata, del fermento che aveva lasciato in paese la Compagnia d’Arme, dei guai che erano toccati a lui. — I cenci vanno all’aria, signora mia, e chi ha fatto il danno invece se la passa liscia. Benedetta voi che ve ne state in casa, a badare ai vostri interessi. Fate bene! Avete ragione! Tutto ciò che si vede qui è opera vostra. Non lo dico per lodarvi! Benedette le vostre mani! Vostro marito, buon’anima!... via, non parliamo dei morti... le mani le aveva bucate... come tutti i Rubiera... I fondi coperti di ipoteche... e la casa... Infine cos’era il palazzetto dei Rubiera?... Quelle cinque stanze lì?...

La baronessa fingeva d’abboccare alle lodi, dandogli le informazioni che voleva, accompagnandolo di stanza in stanza, spiegandogli dove erano stati aperti gli usci che mettevano in comunicazione il nuovo col vecchio.

Ciolla seguitava a guardare intorno cogli occhi da usciere accennando del capo, disegnando colla canna d’India: — Per l’appunto! quelle cinque stanze lì. Tutto il resto è roba vostra. Nessuno può metterci le unghie nella roba vostra finchè campate... Dio ve la faccia godere cent’anni! una casa come questa... una vera reggia! vasta quanto un convento! Sarebbe un peccato mortale, se riuscissero a smembrarvela i vostri nemici... chè ne abbiamo tutti, nemici!...