Pagina:Mastro-don Gesualdo (1890).djvu/395

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come una gatta che gli si vogliano rubare i figliuoli, col pelo irto, tale e quale — la schiena incurvata dalla malattia e gli occhi luccicanti di febbre. Gli sfoderava contro le unghie e la lingua. — Volete farla morire di mal sottile, la mia creatura? Non vedete com’è ridotta? Non vedete che vi manca di giorno in giorno? — L’avrebbe aiutata, sottomano, anche a fare uno sproposito, anche a rompersi il collo. Avrebbe tradito il marito per la sua creatura. Gli diceva: — Me ne vo a stare da mio fratello! Io e la mia figliuola! Che vi pare? — Cogli occhi di brace. Non l’aveva mai vista a quella maniera. Una volta, dietro al medico il quale veniva per la ragazza, egli vide capitare una faccia che non gli piacque: una vecchia del vicinato che portava la medicina del farmacista, come don Luca il sagrestano e sua moglie Grazia portavano in casa Trao le sue imbasciate amorose. Era ridotto a passare in rivista le ricette del medico e la carta delle pillole che mandava Bomma. In un mese mutarono cinque donne di servizio. Era un tanghero lui, ma non era un minchione come i fratelli Trao. Teneva ogni cosa sotto chiave; non lasciava passare un baiocco che potesse aiutare a fargli il tradimento. Era un cane alla catena anche lui, pover’uomo. Infine per togliersi da quell’inferno si decise a mettere Isabella in convento, lì al Collegio di Maria, come quando era bambina, carcerata!