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236 iii - catone in utica


Marzia.  No, genitore; ascolta: (s’alza)
tutto farò. Vuoi che ad Arbace io serbi
eterna fé? La serberò. Nemica
di Cesare mi vuoi? Dell’odio mio
contro lui t’assicuro.
Catone. Giuralo.
Marzia.  (Oh Dio!) Su questa man lo giuro.
 (prende la mano di Catone, e la bacia)
Arbace. Mi fa pietade.
Catone.  Or vieni
fra queste braccia, e prendi
gli ultimi amplessi miei, figlia infelice.
Son padre alfine; e nel momento estremo
cede ai moti del sangue
la mia fortezza. Ah, non credea lasciarti
in Africa cosí!
Marzia.  Questo è dolore! (piange)
Catone. Non seduca quel pianto il mio valore.
               Per darvi alcun pegno
          d’affetto, il mio core
          vi lascia uno sdegno,
          vi lascia un amore,
          ma degno di voi,
          ma degno di me.
               Io vissi da forte:
          piú viver non lice.
          Almen sia la sorte
          ai figli felice,
          se al padre non è. (parte)
Marzia. Seguiamo i passi suoi.
Arbace.  Non s’abbandoni
al suo crudel desio. (parte)
Marzia. Deh! serbatemi, o numi, il padre mio. (parte)