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atto secondo | 273 |
Varo. Cosí non fosse!
La tua compiango, amico,
e la sventura mia, che mi riduce
un uffizio a compir contrario tanto
alla nostra amicizia, al genio antico.
Ezio. Prendi: Augusto compiangi e non l’amico.
(gli dá la spada)
Recagli quell’acciaro
che gli difese il trono:
rammentagli chi sono,
e vedilo arrossir.
E tu serena il ciglio, (a Fulvia)
se l’amor mio t’è caro:
l’unico mio periglio
sarebbe il tuo martír. (parte con guardie)
SCENA VII
Fulvia e Varo.
Fulvia. Varo, se amasti mai, de’ nostri affetti
pietá dimostra, e d’un oppresso amico
difendi l’innocenza.
Varo. Or che m’è noto
il vostro amor, la pena mia s’accresce,
e giovarvi io vorrei; ma troppo, oh Dio!
Ezio è di sé nemico: ei parla in guisa
che irríta Augusto.
Fulvia. Il suo costume altero
è palese a ciascuno. Omai dovrebbe
non essergli delitto. Alfin tu vedi
che, se de’ merti suoi cosí favella,
ei non è menzognero.
Varo. Qualche volta è virtú tacere il vero.
Se non lodo il suo fasto,