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160 xiii - la clemenza di tito


Vitellia.   Aspetta. (Oh dèi!)

Sesto?... (Misera me!) Sesto?... (verso la scena) È partito.
Publio, corri... raggiungi...
digli... No. Va’ piuttosto... (Ah! mi lasciai
trasportar dallo sdegno.) E ancor non vai?
Publio. Deve?
Vitellia.   A Sesto.
Publio.   E dirò?
Vitellia.   Che a me ritorni;
che non tardi un momento.
Publio. Vado. (Oh, come confonde un gran contento!) (parte)

SCENA XIII

Vitellia.

Che angustia è questa! Ah! caro Tito, io fui

teco ingiusta, il confesso. Ah! se frattanto
Sesto il cenno eseguisse, il caso mio
sarebbe il piú crudel... No, non si faccia
sí funesto presagio. E se mai Tito
si tornasse a pentir?... Perché pentirsi?
perché l’ho da temer? Quanti pensieri
mi si affollano in mente! Afflitta e lieta,
godo, torno a temer, gelo, m’accendo;
me stessa in questo stato io non intendo.
          Quando sará quel dí,
     ch’io non ti senta in sen
     sempre tremar cosí,
     povero core?
          Stelle, che crudeltá!
     un sol piacer non v’è,
     che, quando mio si fa,
     non sia dolore. (parte)