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atto terzo 187


Tito. (Palpita l’infedel.)

Publio.   (Dubbio mi sembra,
se il pensar che ha fallito
piú dolga a Sesto, o se il punirlo a Tito.)
Tito. (E pur mi fa pietá.) Publio, custodi,
lasciatemi con lui. (parte Publio e le guardie
Sesto.   (No, di quel volto
non ho costanza a sostener l’impero.)
Tito. (rimasto solo con Sesto, depone l’aria maestosa)
Ah! Sesto, è dunque vero?
Dunque vuoi la mia morte? E in che t’offese
il tuo prence, il tuo padre,
il tuo benefattor? Se Tito Augusto
hai potuto obbliar, di Tito amico
come non ti sovvenne? Il premio è questo
della tenera cura
ch’ebbe sempre di te? Di chi fidarmi
in avvenir potrò, se giunse, oh dèi!
anche Sesto a tradirmi? E lo potesti?
e il cor te lo sofferse?
Sesto. (prorompe in un dirottissimo pianto e se gli getta a’ piedi)
  Ah, Tito! ah, mio
clementissimo prence!
non piú, non piú. Se tu veder potessi
questo misero cor, spergiuro, ingrato,
pur ti farei pietá. Tutte ho sugli occhi
tutte le colpe mie; tutti rammento
i benefizi tuoi: soffrir non posso
né l’idea di me stesso,
né la presenza tua. Quel sacro volto,
la voce tua, la tua clemenza istessa
diventò mio supplizio. Affretta almeno,
affretta il mio morir. Toglimi presto
questa vita infedel; lascia ch’io versi,
se pietoso esser vuoi,
questo perfido sangue a’ piedi tuoi.