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128 xviii - attilio regolo


degno d’un cor romano

in me traluce, ei m’inspirò.
Attilia.   Finora
però non veggo...
Licinio.   E che potei, privato,
finor per lui? D’ambiziosa cura
ardor non fu che a proccurar m’indusse
la tribunizia potestá: cercai
d’avvalorar con questa
le istanze mie. Del popol tutto a nome,
tribuno, or chiederò...
Attilia.   Serbisi questo
violento rimedio al caso estremo.
Non risvegliam tumulti
fra ’l popolo e il senato. È troppo, il sai,
della suprema autoritá geloso
ciascun di loro. Or questo, or quel n’abusa;
e quel che diede l’un, l’altro ricusa.
V’è piú placida via. So che a momenti
da Cartagine in Roma
un orator s’attende: ad ascoltarlo
giá s’adunano i padri
di Bellona nel tempio. Ivi proporre
di Regolo il riscatto
il console potria.
Licinio.   Manlio! Ah! rammenta
che del tuo genitore emulo antico
fu da’ prim’anni. In lui fidarsi è vano:
è Manlio un suo rival.
Attilia.   Manlio è un romano;
né armar vorrá la nimistá privata
col pubblico poter. Lascia ch’io parli:
udiam che dir saprá.
Licinio.   Parlagli almeno,
parlagli altrove; e non soffrir che mista
qui fra ’l volgo ti trovi.