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Miguel Gotor
«Anche nella necessità si può essere liberi»:
le lettere di Aldo Moro dalla prigionia



Il 18 maggio 1978, pochi giorni dopo la morte di Aldo Moro, l’Italia era ancora immersa in una coltre di sgomento, fango e smarrimento, quando Italo Calvino pubblicò sul «Corriere della Sera» un articolo intitolato Le cose mai uscite da quella prigione. Lo scrittore, con la lucidità che ha contraddistinto la sua posizione nella cultura italiana del secondo Novecento, rifletteva sulla «possibilità dell’uso del discorso nel cuore del terrore» e sollevava il problema del dialogo tra il prigioniero e i suoi carcerieri manifestando «la certezza desolata che quei dialoghi non si sarebbero mai più potuti ricostruire, che erano perduti per sempre, più di quelli di Cesare e di Bruto e di Antonio, perché i carnefici non raccontano mai nulla e Moro non sarebbe più tornato»1. L’assenza del testimone integrale — Aldo Moro — e la propensione al silenzio dei suoi assassini: da questa velenosa miscela scaturiva, secondo Calvino, l’impossibilità di raccontare quella vicenda con gli strumenti e i metodi della storia2. Con rabdomantica sensibilità lo scrittore coglieva precocemente nel segno perché gli scritti di Moro dalla prigionia, le lettere e il memoriale, hanno seguito un percorso travagliato e oscuro, che costituisce la pertinente metafora della tragedia del potere che travolse l’uomo politico democristiano.

In base alla testimonianza di Eleonora Moro esistono ventotto lettere autografe del marito, anche se si ha la fondata ragione di ritenere che le Brigate rosse ne distribuirono non meno di trentasei3. È bene sottolineare che i sequestratori diffusero pubblicamente soltanto quattro missive (una lettera a Cossiga, due a Zaccagnini e uno scritto su Paolo Emilio Taviani), affidandone il recapito a importanti quotidiani e dunque decidendo di voler influenzare con quest’atto direttamente l’opinione pubblica italiana. L’obiettivo, che fu perfettamente raggiunto, era duplice: per un verso, distruggere la statura politica e la moralità personale di Moro, per un altro usare i suoi messaggi per dividere il fronte politico e istituzionale fra quanti erano favorevoli a una trattativa pubblica con i brigatisti e chi invece riteneva che il governo e i partiti non dovessero cedere, almeno apertamente, al loro ricatto.

I sequestratori consegnarono le rimanenti missive seguendo canali segreti e i destinatari decisero di rispettare la loro volontà. Naturalmente, queste lettere riservate, seppure non influenzarono direttamente l’opinione pubblica, condizionarono lo stesso i comportamenti di quanti le avevano ricevute. Esse facevano parte di un secondo grado di destabilizzazione psicologica e

  1. Le cose mai uscite da quella prigione, in «Corriere della Sera», 18 maggio 1978; I. Calvino, Saggi 1945-1985, a cura di M. Barenghi, vol. II, Milano, Mondadori, 1995, pp. 2336-43, in particolare p. 2338.
  2. Mi sono soffermato su come «il caso Moro» è stato rielaborato in campo letterario in Dentro il baule di Aldo Moro, in Atlante storico della letteratura italiana, a cura di S. Luzzatto - G. Pedullà; Dal romanticismo a oggi, vol. III, a cura di D. Scarpa, Torino, Einaudi, 2012, pp. 959-963
  3. Affronto l’argomento in A. Moro, Lettere dalla prigionia, a cura di M. Gotor, Torino, Einaudi, 2008, pp. 223-235.