Pagina:Neera - La sottana del Diavolo, Milano, Treves, 1912.djvu/17

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la sottana del diavolo 11


momento, subentrava da parte di quelle povere donne la scoraggiante constatazione che nessuna di esse avrebbe mai potuto servirsi di quella roba. Invano le più giovani si sentivano crescere la saliva in bocca e tremavano di commozione toccando quelle stoffe, quei nastri, quei pizzi, quelle piume, quelle scarpette luccicanti d’oro, quelle vitine scollate che esse non avrebbero osato mettere, oh! no, ma dinanzi alle quali il loro cuore batteva collo stesso turbamento misto di paura e di attrazione invincibile che le prendeva qualche volta sulle balze scoscese dei loro monti là dove precipitava fosco d’ombre l’abisso. Invano! Di solide gonne di panno, di grossa tela, di pesanti calzerotti esse avevano duopo e il trovarsi dinanzi tutta quella roba magnifica ma inutile le rendeva meste.

— Cosa si fa? Cosa si fa? — gemeva don Assalonne.

Il consiglio lo diede la signora Radegonda, sorella del farmacista e vedova di un veterinario col quale aveva vissuto sei mesi appena, ma che per il fatto di essere stata maritata a un quasi dottore e di avere viaggiato (cinquanta chilometri lontano da Spadafora), assumeva volontieri delle arie da dottoressa e di donna pratica del mondo. Col suo naso aguzzo