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112 Una giovinezza del secolo XIX

usavano un tempo le modiste per allestire le cuffie, o di terraglia, quali si trovano forse ancora in certi vecchi giardini, ma così ben dipinto, guancie rosee ed occhi lucenti, da giustificare l’ammirazione di una fanciulla un po’ fantastica; quel busto aveva anche un nome, si chiamava la signora Tintimillia; non le mancavano altro che le gambe e la parola. Chi fosse, d’onde venisse, nessuno non ne sapeva nulla, ma per me fu oggetto di gran fantasticare, molto più che la signora Tintimillia non era sola lassù. Dal rettangolo di una cornice bucherellata dal tarlo, proprio dirimpetto a lei, sporgeva la testa di un frate. Le mie zie dicevano che era il ritratto di un nostro antenato; quanto al sapere per quale intreccio di eventi lui e la signora Tintimillia si trovassero riuniti nell’esilio, la mia curiosità rimase insoddisfatta, ma ai piaceri della fantasia non occorre la verità, basta il sogno. Io almeno me ne accontentai.

In fondo al semicerchio della via, sull’angolo di un viottolo che si perde fra giardini e verzieri, c’era la casa dove abitavano i migliori amici delle mie zie, una amicizia di tre generazioni, una di quelle rare amicizie su cui è dolce riposare il cuore. Non dimenticherò l’augusto Collella, altro abitante della contrada, oggetto di stupefazione