Pagina:Ojetti - Mio figlio ferroviere.djvu/256

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aperta continua e concorde della maldicenza. Si aggiunga che pei socialisti, comunisti, russi e rossi, era più facile ritrovarsi insieme e uscire sulla strada, in cento, duecento, cinquecento da un comizio o da un’officina. Ma adesso dovevamo noi borghesi rivoltarci contro loro, ed a noi era difficile unirci, sia pure in corteo, perchè noi si vive più soli che in compagnia, più in casa che sulla strada, più a testa scoperta che col cappello in testa. Infine a tenere ancóra divisi e sospesi gli animi contribuivano i “popolari” accusando Tocci d’avere pensata una burla troppo volgare e spudorata la quale, se narrata da qualche giornale di Roma, avrebbe dato a tutta la città una cattiva fama e quasi un cattivo odore. Così passò tutta la giornata, sotto un brusìo di ciarle che ancóra non prendevano corpo e forza di sentenza. La sera, mentr’ero a pranzo, suonarono il campanello: tre suonatine timide timide tanto che Teta credette allo scherzo di un monello e prima di scendere ad aprire s’affacciò a guardare dalla finestra. Era Neo, un ragazzotto sui dieciannove anni, meccanico in una piccola officina che rattoppava biciclette e macchine da cucire; alla Camera del Lavoro aveva un impiego tra di portiere e di portalettere. Non parlò che quando fu davanti a me e Teta fu uscita: — Il sindaco ha bisogno di lei súbito. È ferito. — Quando? Dove? Da chi? — È ferito a un braccio e alla testa. L’hanno