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XLVIII PREFAZIONE

con le schegge e i frantumi, li colpivano,
li sbranavano; e gemiti di morte
e trionfal clamore empiéano il pelago1.

Questo brano d’Eschilo ci permette d’integrare l’impressione che tutti riceviamo dalla pittura omerica. Entrambi i poeti concepiscono le loro stragi di uomini come gli orridi macelli compiuti nelle tonnaie. Tranne che in Eschilo il confronto è esplicito, ed implicito in Omero.

E d’ogni banda, a mille a mille, i Lestrígoni prodi
corsero tutti; e giganti, non gente sembravan mortale.
E da le rupi, con massi che niun uomo avrebbe levati,
ci lapidarono; e sorse da tutti le navi un frastuono
d’uomini uccisi, di navi spezzate. E infilati a le picche,
su li portar, come pesci, per farne banchetti nefandi.

Tutti adunque, i miti dell’Odissea, sono trasposizioni della realtà attraverso lo spirito del poeta. E qui si trova una delle ragioni, massima, del fàscino del poema. L’arte, espressione di vita, è soggetta alle medesime leggi della vita. Un fiore avulso dal suo gambo è immune da ogni impuro contatto del suolo, ma vive un giorno. E vivono un giorno, quanto può durare una moda, le opere d’arte che presumono staccarsi dalla realtà. L’Odissea è una pianta prodigiosa, che ha serbate intatte tutte le sue radici. Riaffondiamole nell’humus, ecco la linfa circolare di nuovo per ogni

  1. Nei Cavalieri di Aristofane, il coro dice a Cleone: «Sopra il sasso - della Pnice, come tonni i tributi aspetti al passo». E nelle Vespe dello stesso poeta, i vecchi ateniesi, parlando dei Persiani sconfitti, dicono: «Gl’inseguimmo, fiocinandoli come tonni, con le lance — nelle brache — ».