Pagina:Omero - L'Odissea (Romagnoli) II.djvu/81

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78 ODISSEA

440sui suoi ginocchi Ulisse possente, le carni arrostite
mi porse a piene mani, purpureo vin mi profuse.
Perciò piú d’ogni altro uomo Telemaco è caro al mio cuore.
E t’assicuro ch’egli temere non deve la morte,
dai Proci almen: ché niuno la schiva, se un Nume la manda».
     445Questo a incorarla disse; ma in cuore volgeva il misfatto.
Ed essa, ascesa allora nell’alte sue fulgide stanze,
piangeva Ulisse, il caro suo sposo; sinché su le ciglia
a lei soave sonno versò l’occhicerula Atena.
     Su l’imbrunire, intanto, giungeva l’onesto porcaro
450presso ad Ulisse ed al figlio. Sgozzato un porcello d’un anno,
stavano questi allestendo la cena. Ed Atena, d’un tratto
fattasi presso a loro, di nuovo il figliuol di Laerte
con la sua verga toccò, di nuovo lo rese vecchiardo,
e lo coprí di cenci, perché non dovesse il porcaro,
455vedendolo cosí, riconoscere, e senza sapersi
piú contenere, tutto narrasse a Penelope scaltra.
Primo Telemaco a lui con queste parole si volse:
«Eccoti, Eumèo! Che cosa si dice in città? Son tornati
i valorosi Proci, di già, dall’agguato a me teso?
460O sono ancora lí, m’aspettan che a casa io ritorni?»,
     Eumèo fedele, e tu rispondevi con queste parole:
«A cuore non mi stava sapere né chieder di questo,
andando alla città; ma il cuor mi diceva ch’io presto
facessi l’ambasciata, che súbito poi ritornassi.
465Ed incontrai, mandato dai tuoi compagni, un messaggio:
questi a tua madre, prima di me, recò la novella.
Un’altra cosa io so: che l’ho con questi occhi veduta.
Già fuor della città camminavo, al ritorno, ove sorge
d’Ermète il colle, quando io vidi un veloce naviglio