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CAPITOLO DECIMOTERZO 255

plebèo e il nobilaccio spiantato ; questi, che con i lenti e faticali guadagni della operosità altrui, raddoppia i più arrosso voli débiti ; quello, che, per volerlo azzurrare, avvelena ’1 suo sàngue.... E Viberto spasimò di giltarsi sul treno e di rapir La innocente ai Lìvidi baci ; poi, lese la \ÌNla, in batticuore, sperando ch’e’ fuor sailasse dalle rolaje. Ma il treno continuava al suo scopo, fatai mente sicuro. Infine, si levò dal rialto. (ìli timpanàvan le orecchie. Camminò pel bastione un po’ ancora ; e tenne vèr casa. — Oè, Alberlo ! — chiamò, a mezza strada, una voce. Ei non udì. Oè ! — tornò a dire la voce. Yùllosi, vide Enrico Fiorelli. Il (piale : — Me ne successe una bella. — Alberto 1 interrogò con lo sguardo il meno curioso del mondo. Ma andiamo ordinali — ripigliò Enrico. Stasera, dunque, c* fu il matrimonio del- f Uidalò, sai.... — Sì — disse Viberto. — Anzi ! ne ricevetti l’invito. — Anch’io — osservò Enrico. — Ma non volevo recàrnmi. Credi *? io non posso vedere a si rozza re neanche un pollastro. Tanto più, che ini gira pel capo una pòvera tosa che l’Andalò, dopo di avere condotto su e giù per un anno col zuccherino della speranza, ha, nella fàusta occasione, piantalo.... Tornando a noi : per me, non ci sarei mai andato ; senonchè, passando in calìe, trovo il papà della sposa. Ci conosciamo da un pezzo ; è il mio sarto ; il famoso I* ronzoni. Il quale, gonfiàlomi alquanto intorno alla sua strepitosa fortuna, mi strapregò di volerlo onorare assistendo al connubio della mar-