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302 G0CCIE D'INCHIOSTRO parapioggia, un pìccolo bastone dell’Alpi dal nero corno di camoscio, avanzò sulla predella il più elegante piedino che mai calzolajo avesse avuto la fortuna di strìngere fra le palme, spiccò un leggiero salto e, sulla punta degli stivaletti, un po’ aiutata dalle grosse pietre che uno sollecito stalliere voltolava per lei nel molliccio, un po’ dalla robusta mano che il conte le offriva, senza schizzi di fango, sana e salva, riuscì presso al marito. Tutti e due allora s’avviàrono : s'avviarono a paro, lentamente. Il conte e la contessa da circa tre mesi chiamavansi col medésimo nome. Il solo amore li aveva congiunti, e se nobiltà e ricchezza èrano, esse pure, intervenute a segnare la scritta ed a mangiare i confetti, vi èrano, credetelo, senza alcun invito. I nostri gióvani sposi realizzàvano due fra i più spiccati modelli di bellezza italiana : l’uno ricordava la calda tinta di un siciliano tramonto, l’altra la malincònica e smorta di un mattino lombardo. Il conte, col suo corpo svelto e nervoso, colla sua faccia affilata, brunetta,dal naso fortemente aquilino, dai baffi, come i capelli, nerissimi, con due occhi che lucicà- vano a guisa di pugnali, palesava come in lui brillasse dell’àrabo sangue, di quella razza a grandi contrasti, ora inerte, estatica nelle più misteriose contemplazioni, ora guizzante, in febbre, solto passioni roventi come il sole di Africa ; oggi di una folle generosità ; dimani, con sottigliezza, vendicativa : invece il volto della contessa, pàllido, grassoccio, dagli occhioni neri con lunghe ciglia e il cui ovale appariva fra anella di un castagno chiaro, (piasi sempre spirava queirintenso alleilo, quel voluttuoso abbandono, quel languore, che caratterizza le innamorate della nostra pianura.