Pagina:Opere di Luciano voltate in italiano da Luigi Settembrini - Tomo 1.djvu/196

Da Wikisource.
188 nigrino.

Luciano. Eccomi all’impensata divenuto felice, beato, e, come si dice su la scena, strafortunatissimo.

L’Amico. Oh! così presto?

Luciano. Sì.

L’Amico. Ma che gran cosa è cotesta che ti gonfia tanto? Per rallegrarcene vogliamo saperla, e non così solamente in aria, ma particolarmente: informaci di tutto.

Luciano. Non ti pare cosa mirabile, per Giove! ch’io di servo son divenuto libero, di povero veracemente ricco, di stolto e di sciocco son divenuto assennato?

L’Amico. Cosa grandissima; ma non ancora intendo bene che vuoi dirmi.

Luciano. Io andai a dirittura a Roma col proponimento di vedere qualche medico d’occhi, perchè il male a quest’occhio più mi cresceva.

L’Amico. Sapevo cotesto, e desideravo che tu venissi a mano di qualche medico valente.

Luciano. Adunque volendo io da molto tempo ragionar con Nigrino, il filosofo platonico, mi levai presto una mattina per giungere a casa sua; e picchiata la porta, e detto al servo chi ero, entro, e lo trovo con un libro in mano, ed accerchiato da molte immagini di antichi sapienti. Nel mezzo della stanza era una tavola scritta di figure geometriche, ed una sfera fatta di canne, che, a quanto mi parve, rappresentava il mondo. Con grande affetto ei mi abbracciò, e dimandommi che fossi venuto a fare. Io gli dissi il tutto; e poi volli anch’io sapere da lui che facesse, e se pensava di ritornare in Grecia. Com’egli cominciò a parlare di queste cose, e ad aprirmi il suo pensiero, mi riempì di tanta dolcezza di parole, che mi pareva, o amico mio, di udir le Sirene, se mai ve ne furono, o i rosignuoli, l’antico loto1 di Omero: sì divine cose diceva! Perocchè il discorso lo condusse a lodare la filosofia, e la libertà che da essa deriva, ed a spregiare quei che il volgo crede beni, la ricchezza, la gloria, la potenza, gli onori, l’oro, la porpora, ed altre cose tanto ammirate da molti, ed una volta anche da me. Io accogliendo il suo discorso nell’anima

  1. Il loto, λωτός, era un albero di legno duro e nero, del quale si facevano flauti di dolcissimo suono. E presso i poeti λωτός; significa flauto.