Pagina:Opere di Procopio di Cesarea, Tomo III.djvu/156

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146 GUERRE GOTTICHE

il suo naturale, minacciò di voler ben presto far rimordere del violato sangue il nemico. Nè tardato molto il risanamento, un giorno mentre sedea al desco, ed aveavi giusta la sua consuetudine largamente bevuto, deliberò assalire i barbari da solo, e vendicare l'oltraggio sofferto nel piede. Innoltratosi dunque alla porta Pinciana espose di andare al campo avversario per comandamento del supremo duce, e le guardie non avendo motivo di ricusar credenza al prodissimo tra le lance del condottiero, aperte le porte lascianlo a suo buon grado partire. I Gotti, aocchiatolo, dapprincipio il tengono qual disertore in cammino per chiedere mercè da loro. Ma vedutolo quindi nell'avvicinarsi a sciogliere l'arco, nè potendo ancora ben distinguere chi si fosse, muovono in numero di venti ad incontrarlo, ed egli, a bell'agio disbrigatosene, inoltra tuttavia cavalcando a lento passo, nè retrocede tampoco all'imminente arrivo d'un maggiore drappello, che il circondò mentre accingevasi a nuova pugna. I Romani dalle torri in mirandolo, nè riconosciutolo ancora per Corsamante, supponevanlo altro de' suoi caduto in delirio. Se non che dopo grandi e luminose pruove di coraggio, accerchiato dalla nemica turba dovè pagare il fio del suo imprudente ardire. Alla notizia poi dell'accaduto Belisario e l'esercito romano ebberne gravissimo cordoglio, dolendosi che insieme con quel prode fosse venuta meno la pubblica speranza in lui riposta.