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sulla lingua italiana 625

tutti gli elementi che compongono una lingua, ci sia, in ogni suo momento, qualcosa d’identico, che costituisca una tale unità, e sia un mezzo di riconoscere e d’affermare logicamente che un vocabolo o un modo di dire qualunque appartiene a una data lingua, e di far quindi una compita raccolta, di tutti, per quanto è possibile; e questo qualcosa è appunto l’Uso, e null’altro che l’Uso.

Che poi, nel caso nostro, l’unico mezzo per l’Italia d’arrivare a una lingua comune di fatto, sia quello di prender l’Uso di Firenze, è ciò che, s’è già cercato di dimostrare e nella Relazione di Milano e in altri scritti; e potrà venire, anche in questo, l’occasione d’addurne un qualche novo argomento.

Ma, col parlare unicamente del vocabolario della lingua intera, s’è forse inteso, in quella Relazione, di negar che si possa comporre logicamente ed utilmente una raccolta, più o meno limitata, di voci e di modi di dire che facciano parte d’una lingua? Neppur per idea; che anzi il concetto di lingua include una tale possibilità. Posto, infatti, che l’Uso è quell’unico carattere, che si trova in tutti i componenti d’una lingua, ne segue che un qualunque numero di essi ha una ragione di star da sè, e che, tra un vocabolario intero, e una raccolta limitata di vocaboli e di modi [di] dire, non corre altra differenza, che della quantità, e servono l’uno e l’altra, certo in disugual misura, ma in ugual modo, a diffondere una lingua. Qualunque raccolta di tal genere, o grande o piccola, composta con un tale o con un tal altro disegno, o anche a caso, è un tanto d’una lingua intera, all’unità della quale partecipa per l’Unità dell’Uso. Valga per un esempio, tra molti che si potrebbero addurre, quel piccolo numero di voci e di modi toscani, che l’Alfieri messe in carta, per averli sentiti usare qua e là in Firenze1: cosa (sia detto per, incidenza) che non pare essergli venuto in mente di fare nell’altre città d’Italia, dove passò qualche tempo: Sarà stato probabilmente per effetto di quella stessa ubbia che, nel luogo della sua vita dove racconta d’essersi messo, nel suo primo soggiorno in Firenze, a studiar la lingua inglese, gli ha fatto aggiungere: «invece d’imparare dal vivo esempio dei beati Toscani a spiegarmi almeno senza barbarie nella loro divina lingua2». Non riflettè che doveva dire «dialetto», perché la lingua non è loro, ma di tutti gl’Italiani. Comunque sia, mi pare d’aver detto abbastanza per poter concludere che ogni raccolta di vocaboli e di modi di dire ricavati da un Uso vero è una parte integrale d’un intero vocabolario, fatto o da farsi; e parte utile e importante in proporzione dalla sua mole.

Era necessario premettere anche questa avvertenza, perchè, dovendosi nel presente scritto trattar di novo del vocabolario intero, come del mezzo che corrisponde all’intento totale di diffondere un’intera lingua in Italia, il lettore abbia per sottinteso che tutto ciò che si dirà d’un tal vocabolario sarà applicabile (in proporzione, s’intende) a qualunque raccolta di voci e di modi di dire, e anche un vocabolo suo.

Poste tutte queste premesse, mi pare che la questione si possa ridurre a due capi: la materia di cui deve esser composto il vocabolario, e il metodo da seguirsi nel comporlo.

Riguardo al primo si cercherà di dimostrare: Che vocabolario ad uso speciale degli uomini d’una professione, e vocabolario intero d’una lingua, sono due termini che s’escludono a vicenda; e che la materia d’un

  1. Voci e modi toscani raccolti da Vittorio Alfieri con le corrispondenze de’ medesimi in lingua francese ed in dialetto piemontese. Torino, per l’Alliana. 1827.
  2. Alfieri, Vita, epoca terza, cap. 1.