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626 appendice alla relazione

tal vocabolario non può essere che la medesima, e per le persone di lettere, e per le persone civili.

E non già per queste due classi sole, che sarebbe una restrizione non meno arbitraria, quantunque meno esorbitante; ma per tutti gli ordini del popolo, secondo i termini della Proposta citata sul principio, e secondo richiede la cosa medesima. Infatti una lingua è, in quanto è comune a un’intera società, cioè a tutte le classi, più o meno chiaramente distinte, che la compongono, e a ciascheduna, s’intende, in proporzione dell’idee, che è quanto dire de’ vocaboli, di cui usa. E un vocabolario, per essere, fin dove può, il rappresentante d’una lingua, deve comprendere tutti, fin dove può, questi vocaboli comuni; i quali, se non m’inganno, sono, di gran lunga, la massima parte delle lingue. E se ciò non appare alla prima, è perchè le cose differenti attirano più l’attenzione, che le uniformi. Chi vuol farsene un’idea, riguardo a questo fatto particolare, pensi un momento, di quante e quante cose possano discorrere insieme, coi medesimi termini, l’uomo più dotto e qualunque uomo del volgo. Questa comunanza poi può crescere, e è desiderabile che cresca, con l’accrescersi delle cognizioni nelle classi che ne sono più scarse. E come a un tale effetto può servire in sommo grado il pubblico insegnamento, così a questo nulla può meglio servire d’un repertorio nel quale gl’insegnanti medesimi trovino, per poterli trasmettere alle nove generazioni di tutte le classi, e i vocaboli con cui esprimere in un modo unico e uniforme le idee che già possiedono, e i vocaboli con cui acquistarne delle nove.

Ma nella discussione presente, a noi basta il trattare la questione come la troviamo posta, cioè tra le persone di lettere e le persone civili. Riguardo poi al metodo, la Relazione di Firenze non tratta veramente di quello che sia da applicarsi al vocabolario intero, ma solamente ad una «raccolta sufficientemente compita di parole e di modi presi dalla lingua vivente». Essendosi però esposte qui sopra le ragioni per cui il metodo, in questo affare dev’essere uno solo, tanto nel grande, quanto nel piccolo, le osservazioni che ci verranno fatte su quella proposta speciale, serviranno a dimostrare (sempre per quanto si potrà) quale sia, in ogni caso, il metodo richiesto insieme e indicato, e dall’intento e dalla materia.


I.


Nelle diverse arti, e liberali e meccaniche, come anche nelle scienze, ci sono due sorte di vocaboli o, più in genere, di locuzioni: alcune d’Uso comune, altre, in numero incomparabilmente maggiore, d’un uso ristretto a quegli artefici e a quegli scienziati. E perchè ciò? Perchè non hanno, meno in alcuni casi, l’occasione di parlare, se non tra di loro, d’una gran quantità d’oggetti, di fenomeni, d’operazioni, significate da quelle locuzioni. E appunto perchè tali locuzioni non sono dell’Uso comune (anzi non ci potranno mai entrare, nè in tutto, nè in gran parte, attesi i limiti naturali della memoria umana), l’essere omesse nel vocabolario dell’Uso comune non toglie che un tale vocabolario sia riconosciuto da tutti come intero, in quanto ha uno scopo suo proprio, ragionevole, pratico, e dei limiti corrispondenti ad esso. Chi potrebbe volere, e nemmeno immaginarsi, un vocabolario che contenesse, per esempio, i termini relativi alle arti dell’architetto, dell’oriolaio, dello stampatore, e dell’altro, che si trovano nel Prontuario del benemerito Carena o, non che altro, i dugento trenta e più vocaboli che servono ai botanici per denotare i soli caratteri delle foglie?