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Per crearle miraggi, all’alba, quando il cielo
s’empie tutto d’azzurro e rosse carovane,
chiamavo a me le nubi a coprirmi il cratere
e a fabbricarmi in capo fantastici turbanti.

Verso il meriggio, quando gravi cortine cadon davanti alle finestre,
e l’ultimo sandalo finisce di risonar nella strada,
e comincia il languore delle divine sieste,
io mi oscuravo, cambiandomi in una palma di fumo.

Ma il fresco della notte glielo illuminavo colle lave,
per lei prodigavo in aria mazzi di scintille
e stavo così a vegliarla, tenendole fino all’alba
un lampadario azzurro accanto al capezzale.

Ella sonava i suoi crotali, flauti e timpani,
svolgendo un canovaccio di affreschi lascivi
e non vedeva come si deponevan le lave
sul volto mio corrugato, e sgocciolavan poi in lagrime...

Imperiose braccia tendeva ora verso di me,
cercando far salire più in alto il suo ricamato talamo,
sui bianchi guanciali suoi di bei marmi alpini
per dormire più comoda nel suo scultorio letto.

Vennero, senza pietà colpendomi, i devastatori
e le mie ricche chiome di vigneti e verzieri
e gli olivi e i fichi e gli aranci e i sicomori
esalando profumi caddero ammonticchiati.

Colpivano i devastatori e non sapevan che lave
ribollon sordamente in me, da titani alimentate,
nè qual funereo lenzuolo preparavo all’insaziabil schiava;
sotto cui dormir doveva un sonno di millenni!

Più in alto salivano e nessuno s’accorgeva
quanto rosso fosse divenuto l’azzurro lampadario
acceso per un idillio e rischiarante un dramma:
troppo aveva dormito in me Sansone leggendario!

Uno scrollar di spalle, non più, e quindi pio
un pugno di cenere buttato su di lei...
...oh quanto allegra, fine, bianca e bella
era una volta l’inclita città di Pompeo!

Ora nessun più canta sotto gli svelti portici,
non tremolan nei bacini i mazzi dei fior del loto;
sono ora un vulcano vecchio, calvo e triste
eppure in altri tempi fui una cornucopia!

(Trad. di Ramiro Ortiz).