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Dandomi di buona voglia
un raggio dell’occhio tuo sereno,
sulla via del tempo che vien verso di noi
una stella si sarebbe accesa.

Saresti vissuta nei secoli dei secoli,
e mille e mille vite
colle tue fredde braccia
avresti rese di pietra inflessibile.

Saresti vissuta come una forma
perfetta, in eterno adorata,
simile a quelle ninfe che ancora
a noi arrivano dalle scorse età.

Poi che t’amavo cogli occhi di peccato
e pieni di tormento,
che mi lasciaron da secoli
gli avi degli avi!

Oggi più non mi dispiace
di passar sempre più di rado,
di volger gli occhi sempre più tristi
ai tuoi vetri, invano;

poi che oggi somigli a tutte le altre,
nell’andatura e nel vestito,
e ti guardo indifferente,
con un freddo occhio di morto,

avresti dovuto compenetrarti
di quell’incanto sacro,
e accender la notte una lampada
all’amore, nella tua stanza.

(Trad. di Ramiro Ortiz, op. cit.).


Questa poesia è forse la più popolare di Eminescu, più volte musicata da diversi autori, e impressionante, quando, verso il tramonto, s’ode ancora cantare da un vecchio organetto di Berberia nei «mahalà» (1) solitarii di Bucarest rimasti com’erano ai tempi del poeta, con le loro casette basse, adorne di geranii o di giacinti secondo la stagione, nell’interstizio delle due vetrate, mentre qualche vecchio «bragagìu» (2) vi offre, solenne nel turbante che gli avvolge la testa e nella larga fusciacca rossa da cui

  1. Quartieri alla periferia della città, che conservano ancora il pittoresco disordine orientale.
  2. Venditore bulgaro di braga: una specie di birra leggiera e dolciastra fatta di miglio fermentato e di miele.