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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/22

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Le navi, che solean per l’alto mare
     Andar solcando il lor noto viaggio,
     Hor sopra terra si veggon portare
     Sopra questa cittade, e quel villaggio:
     E non è lor possibile contrastare,
     À tanto, e non mai tal provato oltraggio;
     L’onda è si grossa, il vento è tanto grave,
     Che forza è, che perisca ogni gran nave.

Hor come dunque i miseri mortali
     Poteano in tanto mar notando aitarsi?
     Come poteano i più forti animali
     Varcar tant’alto pelago, e salvarsi?
     Si tenne un tempo il vago augel su l’ali
     Cercando arbore, ò terra ove posarsi,
     E stanco al fin lasciò nel mar cadersi,
     Che tutti altri animali havea sommersi.

Era gia ’l mare à tanta altezza giunto,
     Che superava ogni superbo monte:
     E per tutto era il mar col mar congiunto;
     Fatto era mare il lago, il fiume, e’l fonte.
     Il mar potea vedersi in ogni punto
     Bagnare intorno intorno ogni Orizonte.
     Tutto ’l mondo era mar per ogni sito,
     Ne’l mare havea da verun lato lito.

Se i nuvoli, e le nebbie folte, e nere,
     Non t’havesser celato Apollo il volto:
     Come havresti sofferto di vedere
     Il mondo, à cui tu splendi in mar sepolto?
     Havresti il pianto potuto tenere?
     Non haveresti il carro altrove volto?
     Ma tu, per non veder caso si duro,
     Ti velasti d’un nembo così scuro.

Ditemi, havete voi frenato il pianto
     Nereide, e voi maritimi divini,
     Vedendo l’human seme tutto quanto
     In bocca d’Orche, e di mostri marini?
     Et ogni luogo sacro, e tempio santo
     Ricetto di Balene, e di Delfini?
     Che dovea fare in voi vista si tetra,
     S’hor da chi non la vide, il pianto impetra ?

Fra gli Attici, e gli Aonij un monte siede,
     Che con due sommità s’erge à le stelle,
     La cui cima à le nubi soprasiede,
     Ne teme l’oltraggiose lor procelle;
     Due quivi alme arrivar, d’amor, di fede,
     E d’ogni altra virtute ornate, e belle:
     Ch’ in una piccioletta, e debil barca
     Scelse, e salvò fra tutti il gran Monarca.

Il figliuol di Prometheo, io dico quello,
     Che sol con la consorte era rimaso,
     Sommerso ogn’altro dal marin flagello
     Dal Borea à l’Austro, e da l’Orto à l’Occaso.
     Tosto, che s’accostò col suo battello
     À la cima del monte di Parnaso,
     Le Coricide Ninfe, e Themi adora,
     Che l’oracol tenea de’ fati allhora.

Più giusto huom mai non fu, ne più leale
     Di quel, che solo allhor fuggì la morte;
     Ne più religiosa, e spiritale
     Donna, de la prudente sua consorte.
     Giove, che dal celeste tribunale
     Scorse tutte le genti esser già morte,
     E ’l viver solo à due corpi permesso,
     Uno de l’un, l’altro de l’altro sesso;

Trovandogli ambo fidi, ambo innocenti,
     Ambo d’ogni virtù nobile ornati,
     Fè per l’aria soffiar gli Artici venti,
     Da cui fur tutti i nuvoli scacciati.
     Rasserenati tutti gli elementi,
     Ch’eran lunga stagion stati offuscati,
     Mostrò la terra al mondo de le stelle,
     Et à la terra le cose alte, e belle.

Il gran Rettor del pelago placato,
     L’ira del mare in un momento tronca,
     Fà, che ’l trombetta suo Triton dà fiato
     À la cava, sonora, e torta conca.
     Al suono altier da tal tromba spirato
     Non può risponder concavo, ò spelonca;
     Ma rompe in modo l’aria, e con tal volo,
     Che ne rimbomba l’uno, e l’altro polo.