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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/345

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S’à l’eta giovinile havrai riguardo
     Del bel sangue del Sole illustre, e regio,
     E se nel volto mio terrai lo sguardo,
     Vedrai, ch’io non son donna da dispregio.
     E se vuoi dir, che s’ io sfavillo, et ardo,
     Vien per lo bel, ch’è in te di maggior pregio,
     Non è però si vil la mia bellezza,
     Che non v’habbi à trovar gioia, e dolcezza.

Deh non chiudiamo à quel gran ben le porte,
     Che di due la beltà può dare à dui;
     E se possiam bear la nostra sorte,
     Non ci curiam bear la sorte altrui.
     Deh non ti far cagion de la mia morte,
     Che non t’ habbi à doler poi di colui
     Che scriverà. Sta Bibli in questo avello
     Da l’empio core uccisa del fratello.

Poi c’hebbe pieno il foglio in ogni parte,
     E la sua voluntà contata intera,
     Piegò l’ infami, e dolorose carte;
     E con la gemma poi segnò la cera.
     Trova un ministro, e diceli in disparte,
     (Il volto vergognosa, e la maniera)
     Tò porta questa al mio, ma al fin non giunge,
     E dopo tempo assai, fratel, v’aggiunge.

Mentre la carta al suo ministro porge,
     Ei non la prende à tempo, e cade in terra.
     Come cader la misera la scorge,
     Prende augurio entro al cor di nova guerra.
     Il ministro s’ inchina, indi risorge
     Co’l foglio, che l’error nefando serra.
     Ritrova Cauno, e ’l rende irato, e mesto
     Co’l verso, che vorria l’infame incesto.

Il pudico fratel da l’ ira vinto,
     Letto, ch’egli ha l’ indegno, e rio cordoglio,
     Di rabbia, e ardore il bel viso dipinto,
     Straccia, e via getta in mille parti il foglio,
     E quel miser ministro havrebbe estinto,
     Se l’honor non tenea l’acceso orgoglio.
     Pur per coprir l’error de la sorella
     Al ministro di lei cosi favella.

Fuggi malvagio, e rio da la mia vista,
     Osi con tanto error venirmi avanti?
     E dì, ch’io la farò dolente, e trista,
     E che la pena havrà de l’altre erranti,
     Se quel, ch’ella ha perduto non racquista,
     E poco le varran le scuse, e i pianti.
     Timido ei fugge, e tien, che ’l suo disdegno
     Nasca da qualche suo perduto pegno.

Hor mentre ella si veste, e ’l crine adorna,
     Et à lo specchio tien la fronte opposta,
     E per mostrarsi à lui più bella, e adorna
     Fà, ch’ogni gemma sua sia ben disposta:
     Il servo, che portò la carta, torna,
     E le rapporta la crudel risposta,
     E come egli stracciò le notte impresse,
     E quel, che disse à lui, che le dicesse.

Come ode Bibli le repulse, e l’onte,
     E c’ ha compreso ben quel, ch’ei dett’have,
     Si sente impallidir la mesta fronte,
     E trema tutta, e vien di gielo, e pave.
     Dona comiato al servo, e fa, ch’un fonte
     Di lagrime il bel viso, e ’l sen le lave.
     Come la mente poi torna, e rispira,
     Torna anchora il furor, l’ardore, e l’ira.

Tosto da l’ira mossa, e da l’ardore
     Con lo spirto vital l’aere percote,
     E fa sonar la debil voce fuore
     In queste meste, e dolorose note.
     Meritamente sprezza egli il mio amore,
     Temeraria, ch’io fui, perche fei note
     Quelle fiamme impudiche, e scelerate,
     Che nel mio cor dovea tener celate.

Troppo fui presta, misera, à far pieno
     Di tanto errore il foglio infame, et empio.
     Dovea prima, ch’aprir l’acceso seno,
     Con qualche finto altrui tentarlo essempio.
     Pria, ch’allentare à la mia vela il freno,
     S’amava in mar fuggir l’ultimo scempio,
     Pensar dovea con più d’uno argomento
     Al camin dubbio, à la stagione, e al vento.