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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/346

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Non posso hor più fuggir l’ira, e l’orgoglio
     Del vento empio, e del mar l’ultimo sdegno.
     Hor à percoter vò nel duro scoglio,
     Non ho più in mio poter la vela, e ’l legno.
     Ó folle amore, ò scelerato foglio,
     Come scopristi altrui pensier si indegno?
     Ó non prudente, e scelerata mano,
     Come ardisti un’ amor notar si insano?

Da i tristi augurij, oime, mi fu disdetto,
     S’havessi havuto il senno in poter mio,
     Di compiacer à lo sfrenato affetto,
     Di palesar l’ illecito desio.
     Dovea pure à l’augurio haver rispetto,
     Cader vedendo il foglio ingiusto, e rio,
     E dovea sceglier più felice giorno
     Per trarlo à l’amoroso mio soggiorno.

Non dovea far giamai vedere impressa
     La mente mia ne l’odiose carte,
     Dovea la mente mia scoprire io stessa
     In qualche luogo commodo in disparte.
     Che da soverchio amor l’alma mia oppressa
     Veduto havria da l’onde, c’havrei sparte.
     E da sospiri, e da la vista esterna
     Veduta à pieno havria la fiamma interna.

Potea molto più dir la mia favella
     Di quel, che cominciò lo scritto carme,
     E s’al mio amore havea l’alma rubella,
     Potea in aiuto mio movere altr’arme.
     Potea abbracciar la gola amata, e bella,
     E s’egli volea pur da se scacciarme,
     Potea atterrarmi à suoi piè tramortita,
     Et impetrare à i morti spirti aita.

Havrei provato ogni sorte opportuna,
     Mostrata à me da l’amorosa speme,
     E se pur no’l moveano ad una ad una,
     Mosso forse l’havriano unite insieme.
     Ma forse colpa v’ ha l’aspra fortuna,
     Forse, ch’altro pensier l’alma hor gli preme,
     Ne aspettar seppe il mio messo indiscreto,
     C’havesse il cor più libero, e più lieto.

Questo è quel, ch’à me nocque, e ch’à lui spiacque,
     Che fu il ministro mio male avertito,
     E gli presentò il foglio, e non si tacque,
     Mentre ch’ egli hebbe l’animo impedito.
     Che però d’una tigre egli non nacque,
     La madre d’un leon non l’ ha nutrito,
     Non però mostra il suo nobil sembiante
     Haver di ferro il cor, ne di diamante.

Ma vò, che resti ad ogni modo vinto.
     Vò di novo con lui tentar la sorte,
     E mentre l’alma il cor non lascia estinto,
     Io vò seco pugnar costante, e forte.
     Poi che ’l foglio il cor rio mostrò dipinto,
     Vò l’impresa seguir fin’ à la morte.
     Non dovea cominciar, ne ’l core aprire,
     Ma poi che cominciai, convien seguire.

Che se ben lascierò la ingiusta impresa,
     Non però appresso lui sarò qual’ era,
     Li farà ogn’hor ver me la mente accesa
     L’alma, ch’in me vedrà non casta, e intera.
     E ne sarò schernita, e vilipesa
     Come inhonesta, instabile, e leggiera.
     Terrà, ch’altro in suo luogo habbia tentato,
     E sia con fraude giunta al voto amato.

Non crederà, che quel possente Dio,
     Che con si ardente fiamma arde il mio petto,
     Quel caldo habbia creato in me desio,
     Che m’ ha fatto scoprir l’ ingiusto affetto:
     Ma ch’à l’amor cedessi iniquo, e rio,
     Vinta da la lussuria, e dal diletto.
     E quel, che non potei già haver da lui,
     Con fraude, ogn’hor, ch’io vò, l’habbia d’altrui.

Già non potrò mai più dirmi innocente
     Di quello error, che fa l’alma impudica.
     Che se non peccò il corpo, errò la mente,
     E di sorella amai di farmi amica.
     E se ben hora il cor se’n duole, e pente,
     L’alma in tutto però non ho pudica,
     Ne mai d’error si dirà in tutto sciolta
     L’anima, che peccò sol’ una volta.