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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/371

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La Dea, che lieta à le sue feste apparse,
     Spiegato ch’al suo voto egli hebbe il velo,
     Fè, che tre volte in aere una fiamma arse,
     Et inalzar l’acuta punta al cielo,
     Per dare augurio à lui, che non fien scarse
     Le man veneree al suo pietoso zelo.
     Torna ei del buono augurio à casa lieto
     Per goder l’amor suo chiuso, e secreto.

Se bene è anchor di giorno, entra nel letto,
     E spera, et ha l’amato avorio à canto.
     Bacia l’amata bocca, e tocca il petto,
     E gliela par sentir tepida alquanto.
     Prova di novo, e con maggior diletto
     Men duro, e più carnal le sente il manto:
     E mentre bene anchor creder no’l puote,
     Sente, che ’l petto il polso alza, e percuote.

Come se preme alcun la cera dura,
     L’ammolla con le dita, e la riscalda,
     E per poter donarle ogni figura,
     Viene ogn’hor più trattabile, e men salda:
     Cosi premendola ei, cangia natura
     La statua, e vien più morbida, e più calda.
     Ei sta pur stupefatto, e tenta, e prova,
     Tanto, che viva al fin la scorge, e trova.

Move allhor lieto il Re l’alte parole,
     Ringratia la sua Dea con santa mente:
     E mentre viva anchor baciar la vuole,
     La vergine vien rossa, e no’l consente.
     Alza ella il lume al lume, e scorge il Sole,
     E la stanza apparata, e risplendente.
     E co’l dì, che mai più non vide avante,
     Vede nel letto star l’acceso amante.

Il Re la sposa, e poi seco soggiorna,
     E v’è con Himeneo la Cipria Dea.
     Nove volte rifè Delia le corna,
     Dal dì solenne, e pio di Citherea,
     Quand’ella mandò fuor bella, et adorna
     La prole, che nel sen matura havea.
     Pafo il figliuol nomar, ch’al giorno venne,
     Da cui tal nome poi l’isola ottenne.

Di Pafo nacque Cinira; e beato
     Potuto si saria nomare al mondo,
     Se fosse senza prole in terra stato,
     Fin’ al passar del suo viver secondo.
     Ó desir empio, ò fato scelerato,
     Ó mal del regno uscito atro, e profondo.
     Da me padri, e fanciulli, ite lontano,
     E fuggite il mio canto empio, e profano.

E se le vostre orecchie attente alletta
     Quel canto, ch’hor quest’aere sveglia, e fiede,
     Gustate l’harmonia, che vi diletta,
     Ma non prestate à lei punto di fede.
     Se pur credete il mal, l’aspra vendetta
     Crediate anchor del radicato piede.
     Benche duro mi par, che ’l Tracio clima
     Creda quel, c’hor per dire è la mia rima.

Ó quanto il nostro regno io lodo, e beo,
     E m’allegro con lui, poi ch’è discosto
     Da quel, che generò spirto si reo,
     E da quel, dove fu in un tronco posto.
     Il regno felicissimo Sabeo
     Sia pur ricco d’amomo, incenso, e costo.
     Ho poca invidia al suo stato felice,
     Poi che pianta si ria fa radice.

Di Cinira già Mirra nacque, e crebbe;
     E de le donne amabili, e leggiadre
     Di quell’età la palma à lei si debbe;
     Ma il dirò pur, l’amor l’arse del padre.
     E bramò haver di lui la prole, e l’hebbe,
     E fu del suo figliuol sorella, e madre.
     Ó scelerata putta, e qual facella
     Accese entro al tuo cor fiamma si fella?

Scusa il figliuol di Venere i suoi strali
     Da si nefando, e furioso affetto;
     E nega, che fra gli huomini mortali
     Facesse il fuoco suo mai tale effetto.
     Dunque lasciar le parti atre infernali
     Tesifone, Megera, overo Aletto;
     E con la face iniqua de l’inferno
     T’accese di tal foco il core interno.