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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/372

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Quel, che porta odio al padre, un grand’errore
     Commette, e appresso ognun di biasmo è degno:
     Ma s’una n’arde di lascivo amore,
     Infame merta ogni castigo, e sdegno.
     Di tanti Re propinqui hai preso il core,
     Che t’aman sposa haver nel lor bel regno;
     Non vò levar de gli huomini nessuno,
     Eleggi quel, che vuoi, sol ne lascia uno.

Se ben l’accesa figlia aperto approva,
     Ch’è troppo osceno, e rio l’ardor, che sente;
     Non però può, se ben si sforza, e prova,
     De l’ingiusto desio sgravar la mente.
     Lassa (dicea) che fiamma iniqua, e nova
     M’accende de l’amor del mio parente?
     Perche l’amor non lascio infame, e fello,
     E non amo un più giovane, e più bello?

Ma qual sarà più bel, se ’l padre mio
     Mi par sopra ogn’altr’huom più bello, e adorno?
     Deh sommi Dei, si indegno affetto, e rio
     Da me scacciate, e tanta infamia, e scorno.
     Deh paterna pietà, spegni il desio,
     Ch’enorme, e non fedel fa in me soggiorno.
     S’enorme è quel desio, che ’l padre brama
     Veder maggior d’ogni huom, perchè più l’ama.

E se ben bramo haverne quel contento,
     Che si suol trar da l’amoroso invito;
     Che vi sia dentro error già non consento
     Dapoi, che ’l natural seguo appetito.
     E bene è natural, se ne l’armento
     La figlia al padre suo si fa marito.
     Si gode il genitor la sua vitella,
     Come la vede andar matura, e bella.

La figlia del montone, e del cavallo
     Si sente havere il sen grave del seme,
     Del quale ella già nacque: e ’l veltro, e ’l gallo
     À le proprie figliuole il dosso preme.
     Se ne gli altri animai non s’hà per fallo,
     Se ’l naturale amor gli lega insieme;
     Ond’è, ch’è error ne l’huom, che meglio intende,
     S’al natural desio cede, e s’arrende ?

Felice ogni animal, cui vien permesso
     D’sar la natural lor propria legge,
     Poi che ’l nemico popol di se stesso
     Con maligni decreti no’l corregge.
     Quel, che da la natura vien concesso
     À gli augelli, à gli armenti, et à le gregge,
     Di torsi à modo lor marito, e moglie,
     Da l’odiose leggi à l’huom si toglie.

Si legge pur, che son nel mondo genti,
     Le quai del matrimonio non han cura.
     Si congiungon le figlie co’ parenti ,
     E non fan torto al don de la natura.
     Quanto son più di noi saggi, e prudenti
     À non si por da lor legge si dura,
     Che fa il connubio lor, ch’à noi si vieta,
     Per raddoppiato amor crescer la pieta.

Misera mè, perchè non venni al mondo
     In quella parte, ove non è contesa
     La copula à la vergine, secondo
     Le persuade à far la voglia accesa.
     Hor s’io non vengo al fin dolce, e giocondo,
     Dal loco, e da la sorte io sono offesa.
     Ó folle, quale è il fin, che speri, e brami,
     Scaccia pur via da te le voglie infami.

D’essere amato è veramente degno,
     Ma come padre, e d’amor santo, e pio.
     E s’ei non fosse al mio mortal sostegno
     Padre, potrei dar luogo al mio desio.
     Hor poi, ch’egli il mortal diemmi, e l’ingegno,
     Per esser mio, far più no’l posso mio.
     Di lui (s’ei d’altrui fosse) havrei ben copia,
     Ma l’abondanza in me genera inopia.

Meglio è lontano andar da questo lido,
     Per fuggir tanto obbrobrioso errore;
     Ma l’ illecito dardo di Cupido
     Arresta in questa patria il dubbio core.
     Che se tutte le gratie in lui fan nido,
     Vuol, ch’ogni dì contempli il suo splendore,
     Ch’io parli, tocchi, e baci il caro amante,
     Poi che non mi stà ben sperar più avante.