Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/398

Da Wikisource.

Lo spirto Pane à la siringa aviva,
     E poi fa, che la voce il verso esprime.
     Ogni montana, ogni silvestre Diva
     Applaude con prudentia à le sue rime.
     Sol quel, che diede à la Pattola riva
     La vena, onde il ricco or si forma, e ’mprime,
     Scoglie più ardito à la sua lingua il nodo,
     E ’l loda sopra ogni altro, e fuor di modo.

Come ha cantato Pane, il sacro monte,
     Co’l ciglio accenna al figlio di Latona.
     La lira allhor de l’eloquentia il fonte
     Appoggia à la sinistra poppa, e suona.
     Ha coronata la tranquilla fronte
     Del verde allor del monte d’Helicona;
     E come al citharedo si richiede
     L’orna un manto purpureo insino al piede.

Come lo Dio del monte il dolce accento
     Ode concorde à la soave lira,
     E tien ne’ circostanti il lume intento,
     E vede, ch’ogni orecchia alletta, e tira;
     Dice à lo Dio del gregge, e de l’armento.
     Se bene il canto tuo da me s’ammira,
     Pur quel del biondo Dio mi par più degno,
     E che la canna tua ceda al suo legno.

La sententia del monte ogn’uno approva,
     Ogn’un co’l ciglio, e con la lingua applaude,
     Che ’l dir d’Apollo più diletti, e mova,
     Anchor che quel di Pan merti gran laude.
     Fra tanti un sol giudicio si ritrova,
     Che tal parer chiama ignorantia, e fraude:
     Mida l’opinion ritien di prima,
     Che Pan più dolce il suon habbia, e la rima.

Conobbe allhor lo Dio dotto, e giocondo,
     Che in quel, c’havea di Frigia il regio manto,
     Era perduto il dir dolce, e facondo,
     E ’l gran don d’ Helicona ornato, e santo.
     E, perche possa poi vedere il mondo
     Con quali orecchie ei giudicò il suo canto,
     Solo à se il chiama, e poi fa, che si specchie,
     E mostra, ch’egli ha d’Asino l’orecchie.

Subito, che in quel senso i lumi intende,
     Che scorge à l’intelletto le parole,
     E che move l’orecchie, e, che le tende,
     E c’ha ferine quelle parvi sole;
     Sopra il deforme capo un velo stende,
     Poi prega dolce il gran rettor del Sole,
     Che far palese il suo danno non voglia,
     Ch’ei vuol celarlo altrui sott’altra spoglia.

Fingendo, che dolor la testa offenda,
     Forma d’un velo subito una fascia,
     Poi fa, ch’un servo il suo volere intenda,
     E d’esseguirlo à lui la cura lascia.
     Ei fa, ch’un fabro gli lavori, e venda,
     (E con essa al suo Re la testa fascia)
     Una corona d’or superba, e quale
     Si vede hoggi la mitra esser reale.

Cosi mostrò, ch’al Re si convenia
     D’ornar la testa di corona, e d’oro,
     Per ricoprir con qualche leggiadria
     Talhor l’asinità d’alcun di loro.
     Ó che gran mitra, Musa, vi vorria
     Per coprire hoggi il capo di coloro,
     Che con orecchie insipide, e non sane
     Disprezzan Febo, e fanno honore à Pane.

Secrete alcuni dì l’orecchie tiene
     Con grande affanno il castigato Mida;
     Ma palesarle à quel pur gli conviene,
     Che vuol, che ’l lungo crin purghi, e recida.
     Promette fargli inestimabil bene,
     Se tien l’orecchia sua secreta, e fida:
     Ma se mai con altrui ne fa parola,
     Torrà per sempre l’aura à la sua gola.

Promette il servo, e come gli ha recisa
     La chioma, il corto crin purga con l’onda.
     Ma non può ritener fra se le risa,
     Mentre l’orecchie anchor lava, et inonda.
     Por da qualche novella, ch’ei divisa,
     Finge di trarre il riso, ond’egli abonda:
     Gli asciuga, e copre il capo, e fra se scoppia,
     Se non palesa il duol, che ’l suo Re stroppia.