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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/451

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Hor questo è quel grand’util, che s’attende
     Da quel, che di Laerte si fa figlio.
     Che de’ miglior guerrier privi ne rende,
     Chi co’l farlo morir, chi con l’essiglio.
     Vedete voi medesmi, ov’egli impende
     La sua si rara astutia, e ’l suo consiglio;
     In farvi danno, in far banditi, ò morti
     I cavalier fra noi più fidi, e forti.

E se qualche guerrier pugnando vede
     Stare in periglio de la sua persona,
     Se bene Ulisse in suo soccorso chiede,
     Fugge il prudente Ulisse, e l’abbandona.
     Diomede, e Nestor ben potrà far fede,
     Se in questo la mia lingua il ver ragiona.
     Dica l’amico suo, s’ io son bugiardo,
     Che l’appellò, con suo dolor, codardo.

Vede un giorno ferito il buon Nestorre
     Il suo destrier dal rubator d’Helena,
     Hor mentre del furor teme d’ Ettorre,
     E per la troppa età stà in piedi à pena,
     Chiama Ulisse in aiuto, à lui ricorre,
     Che salvi al corpo suo la debil lena.
     Ma il valoroso Ulisse per suo scampo,
     Abbandonò Nestor, le squadre, e ’l campo.

Sà ben, s’è ver quel, che Nestor difese,
     E che disse di questo à Ulisse oltraggio.
     Questi sono i trofei, queste l’imprese
     Di questo si prudente Itaco, e saggio;
     Ch’ oltre, che per le vie, c’havete intese,
     Ne toglie ogn’ huom di spirto, e di coraggio:
     Un’ huom di tanto senno oppresso scorge,
     E gli può dare aiuto, e non gliel porge.

Ma il Ciel, per farlo del suo errore accorto,
     Fè dal periglio istesso opprimer lui.
     Et ecco, s’altri non l’aiuta, è morto
     Ulisse, ch’aiutar non volle altrui.
     Dunque s’un lascia lui, non gli fa torto,
     Poi ch’egli à se diè legge, essempio à nui.
     Ferito, e timoroso alza lo strido,
     E chiama ogni compagno à lui più fido.

V’accorro, e ’l veggo impallidito, e bianco
     Tutto tremar de la propinqua morte.
     Io pongo à rischio me, per far lui franco,
     E m’oppongo à la barbara cohorte.
     E con lo scudo, c’ho nel braccio manco,
     Tengo uno scontro impetuoso, e forte.
     Tanto, che co’l valor di questa palma
     Al timid’huom salvai la timid’alma.

Se non conosci anchor misero, e cieco
     Quanto dal valor mio tu sei discosto;
     Torna di novo à quel periglio meco,
     Nel medesimo modo, ch’ io t’ ho posto.
     E mentre è tutto in rotta il campo Greco,
     Sotto lo scudo mio statti nascosto.
     E quivi di valor meco contendi,
     Quivi dì le ragion, c’hor dire intendi.

Dapoi, che da la schiera armata, e folta
     Salvai colui, che qui vuol starmi al pari,
     À cui le piaghe havean la forza tolta
     Da poter contrastar co’ suoi contrari;
     Con la gamba fuggir libera, e sciolta
     Lo scorsi in un balen dentro à ripari.
     Dove con riso ogn’un concorse à dire,
     Ch’era infermo à pugnar, non à fuggire.

Ecco nel campo un giorno il forte Hettorre,
     Ch’ogn’un del campo Acheo dona à la morte;
     Ne solo à Ulisse il giel per l’ossa corre,
     Ma trema ogni guerrier fra noi più forte:
     Io (come il mondo sà) mi vado à opporre,
     E chiuggo in tutto al suo desir le porte.
     E mentre ei crede haver vinta la guerra,
     Gli avento un grosso marmo, e ’l getto in terra.

Hettor nel campo un’altra volta venne,
     Sfidando à singular battaglia ogn’uno.
     Dove la prece vostra il voto ottenne,
     Che me, via più d’ogn’un, stimò opportuno.
     E questo pugno il suo scontro sostenne,
     Fin che divenne l’aere oscuro, e bruno.
     Ho con Hettor da solo à sol conteso,
     Senza restar però vinto, ne preso,