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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/456

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Mille pratiche occulte ogni hora io tenni
     D’haver qualche castello, ò qualche porta,
     Al fin fra tante d’una à fin ne venni,
     Che la distruttion di Troia importa.
     Di vittovaglie il campo ogni hor mantenni,
     L’ordine io diedi, io lor feci la scorta.
     Fei far più forti, e feci il porto franco,
     E diei forma a’ ripari, al fosso, e al fianco.

À molti cavalier diedi conforto,
     Che stanchi homai da cosi lungo tedio,
     Volean pur ritornarsi al patrio porto
     Senza attendere il fin di tanto assedio,
     Ma con speranze certe, e modo accorto
     Per fargli rimaner trovai rimedio.
     Mostrai d’armarsi il modo, e in più d’un lato
     Dal campo, quando occorse, io fui mandato.

Il nostro Re per obedire à Giove
     Da un sogno vano impaurito, e cieco
     Persuade à l’essercito, e si move
     Per voler ritornarsi al lito Greco.
     Il farne Giove autor ciascun commove
     À lasciar tanto assedio, e fuggir seco.
     Deh no ’l comporti Aiace, ogn’un richiame,
     E mostri, che tal fuga è in tutto infame.

Perche i Greci guerrieri ei non ritiene
     Con l’arme i più plebei , gli altri co’l grido?
     Perche non mostra lor, che non è bene
     Dar fede à un sogno obbrobrioso, e infido?
     Che non ricorda lor, ch’Argo, et Athene
     Tornando senza Helena al patrio lido,
     Gli havrà per insensati, e per codardi,
     Se senza frutto alcun tornan si tardi,

Non erano però si grandi imprese
     Ad un, che ’l suo valor fa tanto egregio.
     Ma che dirò, ch’anch’ei la fuga prese
     Sotto il pretesto van del sogno regio?
     Forse, ch’allhora il Re provare intese,
     Chi l’animo havea vile, e chi di pregio.
     Se à sorte ne provò, ben vide aperto,
     Chi fosse di noi due di maggior merto.

Ben vide te fuggire, e ’l vidi anch’ io,
     E per l’honor comun n’ hebbi vergogna.
     Può stare io dissi allhor dentro al cor mio,
     Ch’ei cosi facil creda ad un, che sogna ?
     Ben vide me, ch’ogni altro, che fuggio,
     Biasmai con ogni sorte di rampogna.
     E mentre, che ’l mio dir molti ritenne,
     Tu festi alzar con tuo disnor l’antenne.

Deh, perche al vostro honor tal fate torto
     (Io replicai) dopo si lungo affanno ?
     Che cosa riportate al patrio porto,
     Se non eterna infamia il decim’ anno ?
     State, che Troia è presa, il tempo è corto,
     Che dee dal fato haver l’ultimo danno.
     Mi fe il dolor facondo, e fei, che ’l figlio
     D’Atreo vi fe chiamar tutti al consiglio.

Ma non per questo Aiace hebbe ardimento
     D’aprir le labra, e ’l lor biasmar ritorno.
     E pur Thersite non hebbe spavento
     Biasmare il Re con ogni infamia, e scorno.
     Come ogn’un per udir star veggo intento,
     Mi levo, e tanto fo lo stesso giorno,
     Che contra Troia ogn’un di novo accendo.
     E ’l perduto valore al campo rendo.

Voi sapete, s’è vero, e s’io sostenni,
     Che ’l Re Troian si superasse pria;
     Hor da quel tempo, ch’io dal campo ottenni,
     Che non tornasse à la magion natia,
     Poi che lui, che fuggia, con noi ritenni,
     Ogni opra, ch’egli fe, può dirsi mia;
     E ciò, ch’ei fece contra il Re Troiano,
     Dite pur, che ’l feci io con la sua mano.

Quando propose un giorno il buon Nestorre,
     Ch’à riconoscer si mandasse alcuno,
     Dove havea posto il campo il forte Hettorre
     Mentre la notte havea l’aere più bruno;
     Fu eletto Diomede: ei volle torre
     Seco un compagno: allhor s’offerse ogn’uno:
     Ogni guerier mostrò di haver desio
     D’esser con lui, fra gli altri Aiace, et io.