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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/46

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Più non può starsi, eccoti il freno in mano,
     O se pur è mutabile il tuo core,
     Mentre anchor fare il puoi, discendi al piano,
     E lascia guida me del mio splendore.
     Ti metti ad un periglio sopra humano,
     E da poterne uscir con poco honore.
     Deh non voler andar, deh prendi figlio
     Più tosto, che ’l mio carro, il mio consiglio.

Egli con giovinil corpo, e pensiero
     Possiede allegro il bel carro paterno.
     Allegro prende il fren d’ogni destriero,
     Gli accoglie allegro sotto il suo governo,
     E più, che fosse mai vano, e leggiero,
     Ringratia il padre, che ’l dolore interno
     Mostra col sospirar, ch’ogni hor rinova,
     E con ogni attion, che ’l vero approva.

In tanto Eto, e Piroo, con gli altri augelli,
     Che senton de la sferza il moto, e ’l vento,
     Si movon, si raccolgon, si fan belli,
     E co piè zappan tutto ’l pavimento.
     Sbuffan fiamme, annitriscon, come quelli,
     Che tutto hanno al volar l’animo intento.
     Tolti tutti i ripari, e ’n aria alzati,
     Trapassan gli euri in quelle bande nati.

Gioisce all’apparir del Sol la terra,
     Levan’ allegre il capo l’herbe, e i fiori.
     Cantando il vago augel s’aggira, et erra,
     E saluta la luce, che vien fuori.
     Superbo l’aureo serpe esce sotterra,
     Che spera al Sol goder gli usati amori.
     Godono huomini, e fiere intorno intorno,
     Che veggon far si bel principio al giorno.

Ó cieca terra, ò miseri animali,
     Non sapete, che mal il Sol v’apporti,
     Ne men, c’hoggi saran tutti i mortali
     Dal suo foco crudel distrutti, e morti.
     Poco à te vago augel, gioveran l’ali,
     Poco à voi serpi, esser’al Sol più forti,
     E te terra, à cui par, che tanto giove,
     Vedrò contra di lui dolerti à Giove.

Fendon le rare nebbie i destrier tutte
     Co i piedi, con le penne, e con le rote;
     È le fa tosto rimaner distrutte
     L’impetuoso Sol, che le percote.
     E leve il peso, et le rote condutte
     Son da i destrier per regioni ignote,
     Che non sentendo à l’uso il giogo grave,
     Van come in mar mal governata nave.

Nave, che senza il peso, che richiede,
     Sia combattuta dal vento, e dal mare,
     Che sì sopra acqua il mar vagando fiede,
     Che par, che sempre stia per traboccare,
     Hor s’alza, hor si ribalta, hor torna in piede;
     Così quel carro era costretto à fare,
     E senza il peso suo con più d’un salto
     Gir balzando per l’aria, hor basso, hor alto.

Gl’indomiti destrier, c’han fatto il saggio
     Di questo novo lor più dolce morso,
     Lasciano il noto lor trito viaggio,
     E dove ben lor vien, drizzano il corso.
     Fetonte se ne sta con mal coraggio,
     Che non ha più consiglio, ne soccorso.
     Non sà dove si vada, ò per qual via,
     Ne se ’l sapesse, il fren regger potria.

Vaghi forse veder varij paesi
     I cavalli cominciano à drizzarsi
     Dove il giorno, e la notte è di sei mesi,
     Dove si vede il Polo immobil starsi.
     Già l’orse, e i buoi dal troppo caldo offesi
     Nel prohibito mar voller tuffarsi,
     E tu non men di lor tardo Boote
     Fuggisti anchor con le tue pigre rote.

Quel pigro Drago, che dal freddo astretto
     Non fu mai formidabile à nessuno,
     Come sentì dal Sol scaldarsi il petto,
     Diventò fiero, horribile, e importuno.
     Già si prepara, e si mette in assetto
     D’uccider quei cavalli ad uno, ad uno,
     E s’oppon lor si spaventoso, e fiero,
     Che gli fece cangiar strada, e pensiero.