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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/466

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Di nove sopra dieci i quali usciro
     Del grembo mio si pretiosi frutti,
     Di quei, che la viril forma sortiro,
     Fu quel, c’hor vive, il minimo di tutti.
     E pria, che ’l nostro Argolico martiro
     Havesse i nostri muri arsi, e distrutti,
     Fu dato con molt’or dal miser padre
     ln guardia al Re de le Tracensi squadre.

Deh Re del ciel, ben che ’l mio sia tanto,
     Fammi gratia però, che tanto io viva,
     Che vegga, e baci il mio figliuolo alquanto,
     Mentre qui mi ritien l’armata Argiva.
     Ma voglio in prima dar l’ultimo pianto,
     À l’altra figlia mia, che non è viva;
     E lavarle la piaga, il sangue, e ’l volto,
     E far, che ’l corpo suo resti sepolto.

Al mar la sventurata il camin prende
     Non senza il tristo suo lamento, e grido;
     Vi giunge, et in un morto i lumi intende,
     C’havea pur dianzi il mar gittato al lido.
     Tosto, che Polidoro esser comprende,
     Ogni donna Troiana alza lo strido,
     Ogn’un del regno Frigio, ch’ivi è seco,
     Biasma il Tracio coltel via più del Greco.

Ella ammotisce, e cinque volte, e sei
     Il volge, e ’l guarda, e vuol saperne il vero,
     E trova à varij segni, à varij nei,
     Ch’usciti anchor non gli eran del pensiero,
     Che l’ultimo figliuol, ch’uscì di lei,
     Che si diè in guardia al Re del Tracio impero,
     È quel, che ’l flutto, e ’l mar posto ha su’l lito,
     Nel collo, e intorno al cor tanto ferito.

Ben vede la dolente genitrice,
     Se ben per lo dolor folle ha la mente,
     Che quel, c’ha ucciso il suo figlio infelice,
     È stato il Re de la Bistonia gente.
     Pensando con quell’or farsi felice,
     Che ’n guardia havuto havea dal suo parente.
     Ma del suo mal verrà mal frutto à corre,
     S’ella potrà essequir quel, che discorre.

Co’l cenno ogni alma Frigia fa, che tace,
     Perche non scopra il lor novo dolore,
     Il pianto, ch’entro à gli occhi in lei si sface,
     Divorato è dal duol pria, ch’esca fuore.
     Hor ferma gli occhi in quel, che in terra giace,
     Hor gli alza al sempiterno alto motore;
     Hor china addolorata il capo basso,
     Non men stupita, e immobile d’un sasso.

Dapoi che si risente, al figlio morto
     Di novo i lumi dolorosi gira,
     E volge à le sue piaghe, e al Tracio torto
     Più che ad ogn’altro danno il guardo, e l’ira.
     E come possedesse il patrio porto,
     E ’l regno Frigio, à castigarlo aspira.
     E ’l volto irato, e di punirlo vago
     La stessa par de la vendetta imago.

Qual la leonza, c’ha perduto il figlio,
     Persegue il cacciator, se ben no’l vede;
     E per oprare il dente, e ’l crudo artiglio,
     Per la pesta, che scorge, affretta il piede:
     Tal la Regina al subito consiglio,
     Il qual la sprona à vendicarsi, cede;
     E và sdegnata in ver la Tracia corte,
     Gli anni posti in oblio, non il cor forte.

Lasciavan gire i Greci, e anchora Ulisse
     I lor prigioni inutili per tutto,
     Che non havean timor, ch’alcun fuggisse,
     Poi ch’al lor voto havean quel Re ridutto.
     Tal ch’ella potè far, che s’esseguisse
     Contra il Re Tracio il destinato lutto.
     Giunge, et à la regal dimanda porta
     Di voler dire al Re cosa, ch’ importa.

Se ben si crede il Re, ch’ella habbia voglia
     Di veder pria, che passi al lito Argivo,
     Quel figlio rifrigerio à la sua doglia,
     Che crede, ch’ella creda, che sia vivo:
     Pur cauto dice à lei, che non si doglia,
     Se non vede il figliuol, ch’egli n’è privo;
     Che l’ha fatto portar da lui lontano,
     Per celarlo al fratel del Re Spartano.