Vai al contenuto

Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/495

Da Wikisource.

Per viva forza à terra il capo inchino,
     E guardo verso i piè con tutto il volto.
     Il pugno, onde afferrai la coppa, e ’l vino,
     Veggo in un piè ferino esser rivolto.
     Hor mentre co’l grugnir si rio destino
     Piango, à compagni miei gli occhi rivolto,
     E scorgo, c’ hanno il pelo hirto, e d’ inchiostro,
     E le zanne incurvate, e lungo il rostro.

Anchor nel volto havean viril aspetto,
     (Ch’ultimi forse à ber fur quello incanto)
     Alsenore, e Polite, è ver, che il petto,
     La spalla, e ’l resto havean porcino il manto.
     Hor mentre il fin, che ne riesce, aspetto,
     Veggo la bocca in fuor spingersi tanto,
     Che la persona più non han biforme,
     Ma il viril volto al busto vien conforme.

Io già per cosa havea sicura, e piana
     Di dover porco vivere, e morire,
     Quando mi volgo, e veggio in forma humana
     Da l’ empia fata Euriloco fuggire.
     Ei sol di noi la mente hebbe più sana,
     Che non mai quel liquor volle inghiottire.
     Ne per minaccie mai, ne per preghiere
     Potè la fata ria disporlo à bere.

E ben ne fece un gran favore il cielo,
     Che fe, ch’ei non gustò quel crudo tosco,
     Ch’anchora havremmo tutti il carnal velo
     Lordo, schivo, odioso, infame, e fosco.
     Et egli, e noi co’l setoloso pelo
     Staremmo ne la stalla, over nel bosco.
     Gran sorte fu, ch’ei sol co’l volto humano
     Tornar potesse al nostro capitano.

Che come il proprio Euriloco ne disse,
     Dapoi che racquistammo il primo viso,
     Tosto, ch’ei giunse al Signor nostro Ulisse,
     E che gli diè di tanto danno aviso;
     In soccorso di noi venir prefisse,
     Se ne dovesse ben restare ucciso;
     E per suo male ei vi saria venuto,
     Se non venia Mercurio à dargli aiuto.

Ver noi, che siam senza la forma vera,
     Con un baston, che in man subito prende,
     Per mandarne à la stalla, ecco un’altera
     Ninfa di Circe, e ’l nostro dorso offende.
     Alto il muso ver lei leva ogni fera,
     E co’l grugnire alquanto si difende.
     Ella à cui fere il volto, à cui la spalla,
     N’andiam gridando al fin tutti à la stalla.

Mercurio intanto al mesto Ulisse arriva
     Per la presa da noi nova figura,
     E don gli fa d’un bianco fior, che priva
     D’effetto ogni empia magica fattura.
     S’appella ne la parte eterna, e diva
     Moli. La sua radice è lunga, e scura.
     Gli diè co’l bianco fiore ancho un consiglio,
     Che di carcer ne trasse, e di periglio.

Con l’aviso del ciel, co’l bianco fiore
     Ne venne il nostro Duce à dar soccorso.
     Lieta Circe l’accoglie, e fagli honore,
     E poi l’invita à l’incantato sorso.
     Schiva Ulisse l’ incanto, e quel liquore,
     Che le setole à noi formò su’l dorso.
     La fata con la verga il crin gli tocca,
     Perche il disponga à tor quei succhi in bocca.

Stassi à mirar l’accorto Ulisse alquanto
     Pria, che del suo desio certa la renda.
     Poi quando vaga esser la vede tanto,
     Ch’ ei quel vino incantato accetti, e prenda;
     E ch’anchor con la verga usa l’incanto,
     À fin che meglio in lui tal sete accenda:
     Mostrando ira, e furor la spada stringe,
     E voler lei ferir minaccia, e finge.

T’inganni (disse) iniqua incantatrice,
     Se con tal’ arte à me far credi oltraggio;
     C’hoggi à gl’ incanti tuoi lo ciel disdice,
     Che haver contra di me possan vantaggio.
     Ben posso io far te misera, e infelice
     Con quel favor, che procurato m’haggio.
     E ben per farlo io son, se non t’emendi,
     E se i compagni miei salvi non rendi.