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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/496

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S’empie Circe d’horror tosto, che scorge,
     Ch’ei de gl’incanti suoi nulla si cura;
     E poi, ch’ à varij segni ella s’accorge,
     Ch’ei qualche cosa ha in se, che l’assicura,
     À lui liberamente il collo porge,
     E dice. Non pensar farmi paura;
     Ben mi puoi fare oltraggio, e villania,
     Ma nulla havrai da me per questa via.

Ferisci pure, e fammi in mille pezzi,
     Che non havrai da me quel, che t’aggrada;
     Ch’ io gradir soglio ad un, che m’accarezzi,
     E non à chi m’assalti con la spada.
     Dunque s’honoro io te, tu me disprezzi?
     S’io ti bramo essaltar, tu vuoi, ch’ io cada?
     Io bramo con quel vin ristoro darti,
     Tu tormi il sangue, e farmi in mille parti?

Ulisse, come saggio, che comprende
     Quel, ch’esser suol talhor donna ostinata,
     Per guadagnarla un’altra strada prende.
     La spada infodra, e poi dolce la guata,
     Poi le parla in maniera, che la rende
     Co’l suo parlar facondo innamorata.
     L’invita ella al d’Amor dolce diletto.
     Entra ei per saggio fin seco nel letto.

Poi ch’ei gradì la donna iniqua, e bella
     Di quel piacer, che più s’ama in amore,
     Con l’eloquente sua dolce favella
     Cercò di novo à lei placare il core.
     E si ben seppe lusingarla, ch’ella
     Promise di tornarne al primo honore.
     Ne guida co’l baston tosto una fante
     Grugnendo stretti insieme à lei davante.

Di succhi il capo à noi sparse la maga
     D’herba miglior, d’incognito à noi nome.
     E di gradire al suo consorte vaga,
     Per torre à noi le setolose some,
     Dicendo il canto, e la parola maga
     Nel luogo, ove fur già l’humane chiome,
     Ne tocca con la verga, e vede intanto
     Ch’ella non usa in van l’arte, e l’incanto.

Quanto più dice, e mormora quei versi,
     Che son contrari à quei, che disse pria;
     Tanto più vera in noi viene à vedersi
     La primiera di noi forma natia.
     Tutti i peli su noi veggiam dispersi,
     Eccetto quei, che ’l capo, e ’l mento havia.
     Il piede, ch’ in due parti era partito,
     Si parte in cinque, e fa ogni parte un dito.

Quando haver racquistato ogn’un si vede
     À più d’un certo segno il volto humano,
     N’andiam (si come il debito richiede)
     Ad honorare il nostro capitano.
     Piangendo ei con amor n’abbraccia, e fede,
     E noi piangendo à lui baciam la mano.
     Poi dice ogn’un (come il parlar gli è dato)
     Cosa, che pien d’amore il mostra, e grato.

Mentre noi dimorammo in quella parte,
     Trascorse il biondo Dio dodici mesi.
     E sò, se val di lei l’ incanto, e l’arte,
     Ch’altre cose ne vidi, altre n’intesi.
     E se grave non v’è, fia ben, che parte
     De le sue rare prove io vi palesi.
     Hor, se v’aggrada, à dirvi io m’incamino
     Di Pico, Re del bel nome Latino.

Dapoi che Macareo ciascun disposto
     Vide à volere udir, cosi seguio.
     Un dì, che con la fata era nascosto
     In servitio d’amore il Signor mio,
     In un tempio, che v’è poco discosto,
     Entrammo à sorte una sua serva, et io.
     Di quattro cameriere era costei
     La più gentile, e più gradita à lei.

Per primo obbietto dentro al santo tempio
     Mentre riguardo il suo maggiore altare,
     Mi s’appresenta à gli occhi un raro essempio
     D’una statua, che v’è, che viva pare.
     M’inchino, e mercè chiedo al mio cor’ empio,
     Come ne’ sacri tempi si dè fare.
     Ammiro, come ho detto, i sacri carmi
     Lo stupendo artificio di quei marmi.