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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/497

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quartodecimo. 243

Mentre d’un Re fanciullo io miro il viso,
     Per quel, ch’à la corona esser si vede,
     E sopra d’un’augello anchor m’affiso,
     Che la corona sua stringe co ’l piede,
     Per haver di quel marmo in parte aviso,
     Da me la damigella si richiede,
     Che mi faccia quell’opra manifesta,
     Che sia quel Re, c’ha quell’augello in testa.

La bella cameriera à me rivolta
     Mi fe cortese udir queste parole.
     Dolce mio Macareo taci, et ascolta
     Quel, che la stirpe può regia del Sole.
     Ch’io vo, che sappia quanto ogn’alma è stolta,
     Ch’à la gran donna mia ceder non vuole.
     Fur fatte quelle statue per far note
     L’opre, che far la mia Regina puote.

Da dieci miglia al Tevere vicino
     Pico già di Saturno al mondo nacque,
     Ne la regia città del suo domino,
     Ch’à lui fondare in quel paese piacque.
     Quando diè legge al popolo Latino,
     E che per Giove Creta gli dispiacque
     Quivi fu poi, che ’l padre al cielo ascese,
     Pico Re del Saturnio almo paese.

Ei fu ne l’età sua più verde, e bella
     D’uno aspetto si nobile, e si vago,
     Di spirto si gentil, ch’ogni donzella
     Havea de l’amor suo l’occhio, e ’l cor vago.
     E da te stesso contemplando quella
     Statua, il puoi ben conoscere à l’imago.
     Da quell’opra trar puoi di spirto priva,
     Qual fu la sua beltà verace, e viva.

Non ti dirò, che l’universa terra
     Mai di si gran valor non vide alcuno
     Nel rendere i cavalli atti à la guerra
     Co ’l lor maneggio proprio, et opportuno.
     Ma, perche la mia Dea qui dentro serra
     Quel marmo, che stupir fa teco ogn’uno,
     Sol ti vo raccontar, perche ti sia
     Noto il poter de la Regina mia.

Già Pico il quarto lustro havea fornito,
     E le più belle Dee patrie Latine
     Vedendol si leggiadro, e si gradito,
     Di si rare bellezze, e si divine,
     Per amante il voleano, ò per marito
     Pervenir seco à l’amoroso fine;
     Le Naiade, le Driade, e le Napee,
     E le Nereide, e tutte l’altre Dee.

Ma giungersi ad alcuna egli non volle,
     Che sol fra tutti un bel sembiante humano
     D’una Ninfa gli piacque, che nel colle
     Palatin parturì Venilia à Giano.
     Costei giunta à l’età matura, e molle,
     De laqual volle amor l’imperio in mano,
     Non men de l’altre accesasi di Pico,
     Amò consorte haverlo, overo amico.

Oprò l’amor reciproco di sorte,
     Che subito, che mosse la favella,
     Il figliuol di Saturno per consorte
     Ottenne la bellissima donzella.
     Cercando allhora ogni terrena corte,
     Non si potea trovar coppia più bella;
     Tal valore, e beltà fu in ambedui,
     Che lui fe di lei degno, e lei di lui.

Ne la beltà nel ver fu rara quanto
     Si puote imaginar ne l’intelletto;
     Ma fu più rara, e nobile nel canto,
     Per quel, che ne seguia, stupendo effetto.
     Potea co ’l verso suo mirabil tanto,
     Che ne le fiere anchor movea l’affetto.
     Fea per l’aria à gli augei fermar le piume,
     Mover di luogo il monte, e stare il fiume.

Dal canto, ch’ogni cor più duro prese,
     Nomar la bella giovane Canente.
     Hor mentre un dì co ’l suo bel verso intese
     A far maravigliar di se la gente,
     Fatto il corno sonar superbo ascese
     Sopra un cavallo suo fiero, e possente
     Pico, et entrò ne le vicine selve,
     Per dar la caccia à l’infelici belve.