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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/54

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Dal più supremo ciel Febo havea visto
     Tutti il caldo fuggir del mezzo giorno;
     Volta era al cerchio l’ombra di Calisto,
     Ch’ella fe poi di si bel nome adorno;
     Col metro la cicala infame, e tristo,
     Rendea noioso il mondo d’ogni intorno;
     Quand’ ella per fuggir quel caldo raggio
     Volle por meta alquanto al suo viaggio.

Dal Sole in una selva si nasconde
     Di grossi faggi, e d’elevati cerri,
     Che cento volte havea cangiate fronde,
     Ne mai sentiti gl’ inimici ferri.
     Si ferma ad un ruscel di limpide onde
     Ma l’arco allenta prima, che s’atterri.
     L’arco s’allunga, e ’l nervo corto torna,
     E tocca un sol de le distese corna.

Indi si china à la gelata fonte,
     E spesso l’acqua in su con la man balza.
     Le sitibonde fauci aperte, e pronte
     Quella parte n’ inghiotton, che più s’alza.
     Beve, e poi lava la sudata fronte,
     Indi s’asside in terra, e si discalza;
     Lava poi (che veduta esser non crede)
     Fin’ al ginocchio il suo candido piede.

Vestito c’hebbe il piè fatto più bianco,
     E ben tre volte trattasi la sete,
     E la faretra toltasi dal fianco,
     Pensa prendere alquanto di quiete:
     Distende il corpo travagliato, e stanco
     Per darsi per un pezzo in preda à Lete.
     La faretra le serve in quel, che pote,
     E fa guanciale à le vermiglie gote.

Giove, che sempre n’ ha seguita l’orma
     Con l’animo, e con gli occhi ascosamente,
     Et à la vaga sua maniera, e forma,
     Di sì belle attioni ha posto mente,
     Non si cura aspettar, ch’ella s’addorma,
     Ma si muta di volto immantinente,
     Da lei la riverita forma piglia
     De la triforme sua pudica figlia.

Già non saprà questo mio furto, e frodo,
     Disse, la dispettosa mia consorte;
     E se ’l sa ben, debbo io stimarlo in modo,
     Che disprezzi un piacer di questa sorte?
     Quando m’abbatterò, s’hor non la godo,
     In così rara aventurosa sorte?
     E giunto à lei con la mentita faccia
     Le domandò dov’era stata à caccia.

Tosto si leva la Vergine bella,
     E riverente à la sua Dea s’inchina;
     E dice con la sua dolce favella;
     Ó vera de le Vergini Regina
     Sappi, ch’ io preferisco la tua stella
     À tutta quanta la corte divina,
     Et anchor, ch’ egli m’oda, dire ardisco,
     Ch’à Giove padre tuo ti preferisco.

Tu sei di castitate un vero essempio
     À le dilette tue pudiche ancelle,
     Egli si fa talhor rapace, et empio
     Ver le donne, ch’à lui paion più belle;
     Trasforma il volto, e con lor grave scempio
     Suole ingannar le semplici donzelle.
     Ride ei, che preferir s’ode à se stesso,
     Et accusar del suo propinquo eccesso.

Allegro Giove intanto al bacio viene,
     Bacio, che poco à donna casta lice,
     E non, che ad una vergine stia bene,
     Ma sarià troppo ad una meretrice.
     Ella per far quel, ch’à lei si conviene,
     De la sua caccia le ragiona, e dice;
     Ma trattosi egli le mentite spoglie
     Dir non la lascia, e l’honor suo le toglie.

La misera donzella per salvarsi
     Con parole e con fatti si difende.
     Ma come puote una fanciulla aitarsi
     Contra chi tutto move, e tutto intende?
     Pur l’ infelice fa quel, che può farsi.
     Guarda, guarda, Giunon, s’ella contende,
     Che non saran sì crudi i pensier tuoi,
     Ne il mal farai, che le facesti poi.