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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/56

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Giunon lo stupro havea già presentito,
     Che fatto havea l’adultero consorte,
     Et haveva in buon tempo stabilito
     Di castigar colei di mala sorte;
     Ma come hà poi notitia, ch’al marito
     Hà fatto un figlio, s’altera sì forte,
     Che più la pena à lei tardar non vole,
     Per l’ ira, c’ ha de l’odiosa prole.

Questo mancava un testimonio certo
     De l’altrui fallo, e de l’ingiuria mia,
     Disse, ma tosto n’haverai quel merto,
     Ch’à la tua colpa convenevol fia.
     Hor’ hor’ voglio, che toglia il tuo demerto
     À te la forma, à me la gelosia.
     Non havrai più quel sì lodato volto
     Col quale il senno al mio marito hai tolto.

La prende con gran rabbia ne’ capelli,
     E la declina à terra, e tira, e straccia.
     Quell’alza gli occhi lagrimosi, e belli,
     E supplice ver lei stende le braccia.
     Già coprono le braccia horridi velli,
     E ver la bocca s’aguzza la faccia,
     Si veste à poco à poco tutto il dosso
     D’un ruginoso pel fra ’l nero, e ’l rosso.

Poi le toglie il parlar grato, e giocondo
     Perche non possa altrui mover col dire,
     Un minaccevol suono, et iracondo
     Dal roco gozzo suo si sente uscire.
     L’unghia s’aguzza à la forma del tondo,
     E si rende atta à graffiare, e ferire,
     Curvar prima la mano, e poi si vede
     L’ufficio far del faticoso piede.

Quel sì leggiadro, e gratioso aspetto,
     Che piacque tanto al gran rettor del cielo,
     Divenne un fero, e spaventoso obietto
     À gli occhi altrui sotto odioso velo.
     L’humana mente solo, e ’l intelletto
     Servò sotto l’ hirsuto, e rozzo pelo.
     Questa, ch’in ogni parte Orsa divenne,
     L’antica mente sua sola ritenne,

Se Giove ingrato ben chiamar non puote
     Ingrato dentro à l’animo il comprende.
     E se non può con le dolenti note,
     Quelle mani, che puote, al ciel distende.
     E ’n tutti gli atti suoi par, che dinote,
     Che tutto il mal, ch’ella hà, da lui dipende.
     C’ha per lui il volto, e l’honor suo perduto,
     E che appartenga à lui di darle aiuto.

Ó quante volte sola dubitando
     Gir per le selve come l’altre fere,
     Sen giva intorno à le sue case errando,
     Over per mezzo à qualche suo podere
     De i propri, e noti suoi frutti mangiando
     Pruni, mele, castagne, noci, e pere.
     Ch’anchor conosce, che fa mal colui,
     Che del suo puote, e vuol mangiar l’altrui.

Ó quante, e quante volte l’infelice
     Scordatasi, c’havea cangiata faccia,
     Fuggì tai fiere, ch’à gli orsi disdice,
     Se non cercan di lor seguir la traccia.
     Quante volte l’afflitta cacciatrice
     Da cani, e cacciatori hebbe la caccia.
     Se vide i lupi, hebbe paura d’essi
     Anchor che ’l padre in loro ascoso stessi.

Fugge gli Orsi essendo Orsa, e amor la sforza
     Fuggirsi al proprio albergo, ò lì vicino.
     Misera dove vai? ragione, e forza
     Ti toglie il tuo per l’empio tuo destino.
     Non può la mente tua sotto tal scorza
     Tenerne più possesso, ne domino:
     Che la legge del mondo no’l comporta
     Che sei fatta una fera, e t’hà per morta.

Quanto infelice sei, se ben ci pensi,
     Tu vergine, e compagna di Diana
     Sei per sfogar gli altrui sfrenati sensi,
     Dal suo tempio fatt’essule, e profana.
     Quanti huomini hai col tuo bel viso accensi,
     Et hor non hai pur la sembianza humana.
     Tu vedi il tuo bel regno, e ’l tuo potere,
     Ne ’l puoi più dominar, ne possedere.