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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/58

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Io sò, c’havete di saper desio
     Disse, perch’io così passeggio l’onda,
     Altri nel ciel possiede il loco mio,
     Più grata al mio marito, e più gioconda,
     E vederete ben, che non mento io,
     Tosto, che ’l Sol la sua luce nasconda,
     Se in ciel ver Borea drizzate lo sguardo
     Nel cerchio, ch’è più picciolo, e più tardo.

Chi fia per l’avenir, che non m’offenda?
     Chi, che mi tema più per quel, ch’io vedo?
     Come nel mondo il mio poter s’intenda,
     Ch’allhora io giovo, che d’offender credo,
     Da me tal pena ogni nocente attenda,
     Questa è la gran possanza, ch’ io possiedo,
     Per nocer toglio altrui l’humana veste,
     E giovo, e folla divenir celeste.

Perche non rende à lei l’antica faccia,
     Come à la figlia d’ Inaco fe Giove?
     Perche dal letto mio me non discaccia?
     Non fa divortio, e non mi manda altrove?
     Perche nel letto mio poi non abbraccia
     Le bellezze per lui sì rare, e nove?
     Che non la sposa oltre il commesso strupo,
     E per socero suo non sceglie un lupo?

Hor voi, se l’honor mio punto vi preme,
     Voi mia nutrice, e tutti i Dei del mare,
     Le sette stelle, che vedrete insieme
     Fra ’l polo, e ’l circulo artico girare,
     Che fan quell’Orsa, che nacque del seme
     D’un lupo, non lasciate in mar tuffare,
     Ch’ al vostro puro mar lavar non lice
     Una stuprata, et una meretrice.

Gli amici Dei del mar tutti fer segno
     Di volerle osservar quanto chiedea,
     Onde tornossi al suo celeste regno
     L’anchor gelosa, e vendicata Dea
     Nel carro suo tornò nobile, e degno,
     Che più, che mai superbo risplendea,
     Poi, che la morte d’Argo, e ’l suo gran lume
     Fece sì belle al suo pavon le piume.

Con diligenza, e tacito il pavone
     À servir la sua Dea contento attese.
     E quando venne poi l’occasione,
     Vedete il guiderdon, che glie ne rese.
     Imita Henrico invitto hoggi Giunone,
     Et Alessandro il mio Signor Farnese,
     Che chi con lealtà ben serve loro,
     N’acquista honori, e dignitadi, et oro.

Talhor del ben servir s’hebbe buon merto,
     Mai se non mal del mal servir non venne.
     E può di questo ogni huom rendere esperto,
     Quel, ch’al pavone, et al corvo intervenne.
     Corvo loquace sai, che ’l tuo demerto
     Fece altramente à te cangiar le penne,
     E s’ei ne fu sì nobilmente adorno,
     Tu ne portasti biasmo, infamia, e scorno.

Sempre si debbe ogni cosa coprire,
     Che può portare altrui noia, et affanno.
     Non si vuol mai ne rapportar, ne dire
     Cosa, onde nascer può scandalo, e danno.
     Tu sai, che per mercè del tuo fallire,
     Ti convenne vestir d’un altro panno,
     E dove bianco, e grato eri, et allegro,
     Sei brutto, e mesto, et odioso, e negro.

Non fu veduto mai più vago augello,
     Più grato ne l’aspetto, e più benigno.
     Un manto il corvo havea sì bianco, e bello,
     Che non cedeva à le colombe, e al cigno,
     Ma dentro il core havea crudele, e fello,
     E l’animo inamabile, e maligno.
     E ben il dimostrò, quando non tacque,
     Cosa, onde poi tanta ruina nacque.

Tempo fu già, ch’ amava una fanciulla
     Febo in Thessaglia, nata Larissea,
     Che la beltà restar fatta havria nulla
     Di qual si voglia in ciel superba Dea.
     La vede il corvo un dì, che si trastulla
     Con altro amante, e che ad Apollo è rea,
     E và per accusar l’ingrata, e fella,
     Che per nome Coronide s’appella.