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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/59

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Il corvo se ne va veloce, e presto,
     Per accusar la donna, e non discorre
     Se bene, ò male è per uscir di questo,
     Ne in che periglio egli si vada à porre.
     Di servire il padrone è bene honesto,
     Ma non però dirgli ogni cosa occorre.
     Hor mentre andava, il vide la cornacchia,
     Che sempre volontier ragiona, e gracchia.

Ella, che ’l vede leggier come un vento
     Con tanto studio il suo camin spacciare,
     Subito prese indicio, et argomento,
     Che qualche gran negotio andasse à fare.
     È de le donne universale intento
     Volere i fatti altrui sempre spiare,
     Ond’ella per servare il lor costume,
     Fè sì, ch’al corvo fe raccor le piume.

Dopo molto pregar trovato un faggio
     Fermollo, dove il suo pensier intese.
     Mal fia, disse, per te questo viaggio
     Corvo, se questo error tu fai palese.
     Perche ne buon non si può dir, ne saggio,
     Quel, che procura scandali, e contese.
     Non sò, perche dir vogli un fatto tale,
     Che non ne può succeder se non male.

Per quel, che da i più savij odo, et osservo,
(Cosa prima da me mal custodita)
     Se ben tu sei d’Apollo augello, e servo,
     Non però dei scoprir l’altrui partita:
     Tenuto sei, se qualche empio, e protervo
     Gli machina nel regno, ò ne la vita;
     Poche altre cose un buon servo dè dire,
     E molte men se mal ne puote uscire.

Ó quanti quanti per l’ inique corti
     Pensando d’acquistar benevolenza,
     E per mostrar d’esser sagaci, e accorti
     Parlando in danno altrui sempre in absenza,
     Imparan poi quel, che il lor dir importi,
     Che n’ hanno universal malevolenza,
     E ne restan scherniti, e vilipesi,
     E ben tu ’l proverai, se ciò palesi.

E se conoscer vuoi, che non sta bene,
     E che senza alcun dubbio erra colui,
     Che dice più di quel, che gli conviene,
     Ricerca quel, ch’ io sono, e quel ch’ io fui;
     E ’l mal intenderai, c’hor me ne viene,
     Per voler troppo esser fedele altrui,
     Ch’esser dovrei norma, et essempio à molti,
     Sì come intenderai, se tu m’ascolti.

Quando i Giganti mosser guerra à Giove,
     Giove con l’ordinarie sue saette
     Parve, che ’ndarno fulminasse, dove
     Fatta la scala havean, che salda stette.
     Vulcano allhor certe saette nove
     Formò per questo fin proprie, e perfette,
     Ch’addosso à quei mandar l’alto edificio,
     E diero al fallo lor degno supplicio.

Giove per premio di sì raro aiuto
     Promise al Fabro dar ciò, che chiedea.
     Egli, che se ben zoppo era, e canuto,
     De l’amor tutto di Minerva ardea,
     Gli disse, che per moglie havria voluto
     La casta, e saggia, e bellicosa Dea.
     Giove, che n’havea fatto giuramento
     Disse, ch’ in quanto à lui n’era contento.

Vulcano allegro Pallade ritrova,
     L’abbraccia, e vuol baciarla come moglie.
     Ella, à cui questo par cosa assai nova,
     Contrasta acerbamente à le sue voglie.
     Lussurioso il vecchio usa ogni prova.
     Ella lo scaccia, ei da lei non si scioglie.
     Al fin con tal fervor con lei s’afferra,
     Che sparge per dolcezza il seme in terra.

Pur conoscendo al fin, ch’ella nol degna
     Scornato il Fabro, altrove s’ incamina;
     Ma del suo seme poi la terra pregna
     Parturì ’l danno mio, la mia ruina:
     Fece un figliuol, c’havea nobile, e degna
     La faccia, e ’l busto, infin dove confina
     Col nodo de le cosce, e ’l resto tutto
     Fù di serpente spaventoso, e brutto.