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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/60

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Pallade quel fanciullo avolse tosto
     Fra tela, e panno, e in una cesta il pose,
     E pensò farlo nutrir di nascosto,
     Per non iscoprir mai sì brutte cose.
     Diè la cesta à tre vergini in deposto,
     Ma, che non la scoprisser, loro impose.
     Queste donzelle, in guardia al mostro date
     Del re d’Athene Cecrope eran nate.

Sopra un’olmo io mi sto fra fronda, e fronda
     Guardando hor questa, hor quell’altra fanciulla.
     Ne la prima non fa, ne la seconda
     La legge di Minerva irrita, e nulla.
     La terza una, e due volte, e tre circonda
     La mal fidata, e mostruosa culla.
     Chiama al fin l’altre, e scopre, e mostra, e vede
     Il volto humano, e ’l serpentino piede.

À Pallade io riporto tutto ’l fatto,
     Sperando al ben servir condegno merto,
     Come servar Pandroso, et Herse il patto,
     C’havean lasciato il parto star coperto,
     Ma ben, ch’Aglauro havea rotto il contratto,
     Ne sol per se quel cesto havea scoperto,
     Ma c’haveva à quell’altre anchor mostrato
     Quel mostro, ch’ Eritthonio era nomato.

Dir non mi curo, come s’allevasse
     Quel figlio, e come poi fu sì prudente,
     Che ’l primo fu, che ’l carro immaginasse,
     Cosa di tanto commodo à la gente;
     Ne come sempre poi su’l carro andasse
     Per nascondere i piedi del serpente,
     Che ’l finse far per pompa, e per grandezza,
     E ’l facea per coprir la sua bruttezza.

Ne men dirò, come Giove allettato
     Dal suo sottile, et elevato ingegno,
     C’havesse il Sol sì ben solo imitato,
     Nel ciel d’un novo lume il fece degno;
     Ne come tutto in stelle trasformato
     Si fe l’Auriga del celeste regno,
     Che ’l fan tredici stelle, e intorno à loro
     Con Perseo han per confin Gemini, e ’l Toro.

Ma ben dirò, che per la lingua mia,
     Per accusar chi mal la legge osserva;
     Io ne fui detta novelliera, e spia,
     E tolta da la guardia di Minerva.
     E dove io l’era serva, e compagnia,
     Tolse in mio luogo altra compagna, e serva.
     E questo m’è piu stimolo, e flagello,
     Ch’io son posposta ad un notturno augello.

Dovrebbe far la mia disgratia accorto
     Ogni altro augel di quanto noce il dire,
     E quanto merta biasmo, e quanto ha torto
     Quel, che i delitti altrui cerca scoprire.
     Tu vedi ben la pena, ch’ io ne porto,
     Priva del grado mio, del mio servire,
     Che già m’hebbe sì grata, e mi diè nome
     Di sua compagna, e vò narrarti come.

Di Coroneo di Focide fui figlia,
     Oime, ch’io rinovello il mio dolore,
     Vergine, regia, e bella à maraviglia,
     E già fei molti Re servi d’Amore.
     Mio nome al nome di colei simiglia,
     Che cerchi d’accusare al tuo signore.
     Gia de la mia beltà molti Re presi
     Per moglie mi bramar, ma non v’attesi.

Perche le voglie mie pudiche, e monde
     Fean resistenza, come à l’acque un scoglio.
     Andando un dì per l’arenose sponde
     Del mar con lenti passi, come io soglio,
     Arder feci Nettuno in mezzo à l’onde,
     Si come lampad’arde in mezzo à l’oglio;
     Ne il mar suo tutto potè spegner dramma,
     De l’accesa da me nel suo cor fiamma.

D’amor costretto al fin del mare uscito,
     Ó Dio, che lusinghevoli parole
     Mi disse. O donna, c’hoggi il cor ferito
     M’hai con le tue bellezze al mondo sole,
     Donna, che col tuo sguardo almo, e gradito
     Pareggi, e passi il lampeggiar del Sole,
     Non fuggir, ma quel Dio gradir ti piaccia,
     Il cui gran regno tutto ’l mondo abbraccia.