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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/61

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Quel Dio Signor di quel degno elemento
     À; cui ciascun de gli elementi cede,
     Se la terra io sommergo à mio talento,
     Pirra, e Deucalion ne faran fede,
     Temendo non restare in foco spento,
     Fuggito è ne la più suprema sede,
     Da l’aer puoi veder s’ io son temuto,
     Ch’ogni giorno ho da lui censo, e tributo.

Perche ne le caverne de la terra,
     Ne le spelonche, c’ ha questo, e quel monte,
     L’aer, che dentro si rinchiude, e serra,
     Si gela, e sface, e forma il fiume, e ’l fonte,
     Per li porosi lochi entra sotterra
     Novo aer’ à perder la primiera fronte,
     Dove vien se medesimo à trasformare,
     Per dar tributo al mio superbo mare.

Io di ricchezze tanto, e tanto abondo
     D’argento, e d’oro, e pietre pretiose,
     Che quante ne fur mai per tutto ’l mondo
     Si trovan tutte nel mio regno ascose,
     Nel mar stà il mio palazzo più profondo,
     Dove si veggon le più rare cose,
     Rubini, oro, e diamanti già sommersi
     Di Latini, di Greci, Arabi, e Persi.

Signor son de’ coralli, e de le perle,
     Et acquisto ogni dì ricchezze nove,
     E se ti piace venir’ à vederle,
     Cose vedrai, che non hai viste altrove.
     Per tutto aprir ti farò l’acque per le
     Strade del mar, fin che tu giunga dove,
     Sta ’l mio tesor, ch’è tutto a’ piacer tuoi
     Per te, per li parenti, e per chi vuoi.

Ei non restava di seguir dicendo,
     Io fuggir con destrezza havrei voluto,
     Al fin l’innamorato Dio vedendo,
     Ch’era il parlar con me tempo perduto,
     Si prepara à la forza, il corso io stendo,
     E gli huomini, e gli Dei chiamo in aiuto,
     Minerva sola al mio pregar voltosse,
     E vergine per vergine si mosse.

Levar la cuffia, e i crin stracciar di testa
     Volendo, empio le man di nera penna,
     La cuffia già s’impiuma, e già s’innesta,
     E fa radice ne la mia cotenna.
     Io cerco alleggerirmi de la vesta,
     Ma quella anchora in me s’ incarna, e impenna,
     Graffiar volsi le parti ignude, e belle,
     Ma ne man non trovai, ne nuda pelle.

Correva à più poter per liberarmi,
     Ne ’l piè posava in terra come prima,
     Ma in aria dal desio sentia levarmi,
     Ne de lo Dio del mar facea più stima,
     Più non temea, che potesse arrivarmi,
     Ne guadagnar di me la spoglia opima,
     Poi, perche à l’honestà fui sempre serva.
     Io fui fatta compagna di Minerva.

Ó sfortunata, e che mi giova hor questo?
     Poi ch’ ogni mio favor restato è vano ?
     Che dal dì, che l’error fei manifesto
     Di chi scoperse il Dragon di Vulcano,
     Nettimene, c’ havea commesso incesto,
     E fatto un novo augel notturno, e strano,
     Ch’ in Lesbo nacque già del Re Nitteo
     Pallade in loco mio sua serva feo.

Ó Dio, che veggo? e chi m’è preferita?
     Una, che de l’amor del padre accesa,
     Fù tanto scelerata, e tanto ardita,
     Et hebbe tanto à ciò la voglia intesa,
     Ch’ à lato al padre à mezza notte gita,
     Dal padre suo fù per la moglie presa:
     Ma scopertosi il fallo, acceso il lume,
     Fuggir volendo si vestì di piume.

Un manto di Civetta la coperse,
     Ch’inditio hor fa di suo peccato, e scorno,
     La luce ha in odio, perche la scoperse,
     E non ardisce comparir di giorno,
     Di giorno non bisogna, che converse,
     Che tutti gli altri augei le vanno intorno,
     E perche sanno il suo peccato atroce,
     Ogni augel, più che può, l’offende, e noce.