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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/62

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Hor la Civetta, perche serve, e tace,
     Pose nel loco mio, me scacciò via,
     Dicendo, ch’era garrula, e loquace
     Et oltr’à ciò rapportatrice, e spia.
     Si che corvo non esser pertinace,
     Non sprezzar l’arte, e la dottrina mia,
     Non accusar colei, ch’io ti predico,
     Che te n’ averrà peggio, ch’io non dico.

Sorride il corvo udendo la cornacchia,
     Che fa profession d’indovinare,
     E dice, à posta tua cicala, e gracchia,
     Ch’io non stimo il tuo augurio, e ’l tuo gracchiare.
     Da l’arbor, dove sta, tosto si smacchia,
     S’affretta, e giunge al fin del suo volare:
     Trova il padrone, e gli racconta, e dice
     Quel, che gli havea vetato la Cornice.

Ahi come à l’ intelletto il lume ammorza
     La gelosia, e l’huom fa cieco, e stolto.
     Già Febo offesa ha l’anima, e la scorza;
     Gli trema il cor, gl’impallidisce il volto.
     Lascia il plettro cader, perde la forza.
     Gli cade il lauro intorno al capo involto.
     Con l’arme usate, ove il furore il guida,
     Corre, e ritrova al fin l’amica infida.

L’arco nel pugno suo sinistro prende,
     Con la destra lo stral nel nervo incocca,
     Poi la saetta, l’arco, e l’occhio tende,
     Tanto, che la sinistra il ferro tocca,
     Apre la destra, e ’l nervo si distende,
     L’arco si fa men curvo, e ’l dardo scocca,
     Ch’à ferir dritto sibilando aspira
     Là, dove l’occhio havea presa la mira.

La misera fanciulla, che si vede
     Ferir dal primo amante, stride, e langue;
     Si trahe dal petto il ferro, che la fiede,
     E tinge il bianco corpo del suo sangue:
     Poi disse, il corpo mio senza mercede
     Febo potevi far restare essangue,
     Ma pria lasciarmi parturir, perc’hora
     Uccidi meco un tuo figliuolo anchora.

Quei fere, e quella con l’audace palma
     Si toglie l’empie freccie da la vita.
     Al fin si scioglie da quel nodo l’alma,
     A cui sì breve tempo è stata unita.
     De la già bianca, et hor purpurea salma
     Tinta da più d’una mortal ferita
     Si scarca l’alma, e’l corpo un freddo opprime,
     Che ne la faccia sua la morte imprime.

S’accorge tardi del suo crudo eccesso
     Il rigoroso arcier quando non giova:
     E che tanto s’irasse, odia se stesso,
     Odia l’augel, che gli portò la nova,
     Odia l’arco, lo stral, la mano, e spesso
     La tocca, e pur di rivocar fa prova
     Lo spirto, che dimora in altra parte,
     Oprando in van la medicina, e l’arte.

Ma poi, ch’apparecchiar vede la pira
     Per arder il bel corpo di colei,
     Ch’egli uccisa s’havea, geme, e sospira,
     Più di quel, che conviensi à i sommi Dei.
     Come giuvenca, che ’l vitello mira,
     Ch’anchora il latte suol poppar da lei,
     In terra andar da l’empia mazza morto,
     Mugge, e si duol del figlio ucciso à torto.

Le diede Apollo al fin gl’ingrati odori,
     E poi, che in braccio più volte l’accolse,
     E fe l’ingiuste essequie à i morti amori,
     Ch’ardesse il seme suo, patir non volse,
     Trasse del corpo dell’estinta fuori
     L’anchor vivo fanciullo, e in braccio il tolse,
     E quindi il trasportò poi, che partissi,
     À te saggio Chiron, perche ’l nutrissi.

Sperava il corvo guiderdone, e merto
     Del vero suo, ma scandoloso aviso,
     Ma d’un nero mantel ne fu coperto,
     Per satisfare in parte al corpo ucciso.
     Maledico, loquace, fatti esperto,
     Se in mal non vuoi cangiar mantello, e viso:
     S’in giudicio non sei per forza astretto,
     Non iscoprir già mai l’altrui difetto.