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Pagina:Ovidio - Le metamorfosi.djvu/64

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Ma tosto lasciò star l’infante, e lui,
     Da maggior cura la Vergine oppressa,
     E non curando ragionar d’altrui,
     Volse il suo profetar tutto à se stessa,
     Ahi lassa Ocira, et indovina fui,
     Ma veggo ben, che non sarò più dessa,
     Soggiunge poi mirando il padre fiso
     Spargendo amare lagrime dal viso.

Dolce genitor mio ferma le ciglia
     Ben fise in me, se mai cara m’havesti,
     Godi con gli occhi la tua mesta figlia,
     Pria che perda la forma, che le desti,
     Frati, e sorelle, e mia dolce famiglia,
     Dolce antro, dolci foschi, e dolci vesti,
     Godetevi quel poco, che si puote
     L’humana forma mia, l’humane note.

Felice me, troppo felice, s’io
     Non havessi saputi i gran secreti,
     De l’alta mente de l’eterno Dio,
     Ne men scoperti i suoi santi decreti,
     Non perderei l’humano aspetto mio,
     E vedrei tutti voi contenti, e lieti,
     C’hor con faccia vedrò turbata, e mesta,
     Mentre pascendo andrò per la foresta.

Già s’incomincia la mia sorte acerba,
     Già perdo il mio bel volto, à voi sì grato,
     Già più m’aggrada, e m’appetisce l’herba,
     Che qual si voglia cibo più pregiato,
     Già capricciosa, indomita, e superba,
     Scorrer vorrei per ampio, e verde prato,
     Già prendo (e servo sol l’humana mente)
     La cavallina forma mia parente.

Servassi almen l’huomo al cavallo unito,
     Già mio padre ha viril l’aspetto, e ’l dire.
     Quest’ultimo parlar mal fu sentito,
     Che no’l pote distinto proferire,
     Dapoi non fu ne parlar, ne nitrito,
     Ma parve un, che fingesse di nitrire,
     Di novo si provò, ne passo guari,
     Che hinniti mandò fuor, spediti, e chiari.

Star si sforza in due piedi, et usa ogn’arte,
     Per voler esser donna, e non le giova,
     Ma trasformar si sente à parte, à parte,
     Già l’una, e l’altra man la terra trova,
     Si congiungon le dita, e non si parte
     Più l’un da l’altro, ch’un’altra unghia nova
     La lega, unisce, e cerchia intorno intorno,
     Ch’è nera, e soda, e quasi à par d’un corno.

S’allarga il capo verso la cervice.
     Si stringe ove si prende il cibo, e ’l fiato,
     Per lo giogo del collo fan radice
     Gli sparsi crini, e van dal destro lato.
     Non men la veste misera, e infelice
     Cangiò contra sua voglia il primo stato.
     Sì fe cuoio col pelo, indi incarnossi,
     Ben ch’ una parte in coda trasformossi.

Il misero Chiron piangendo forte,
     C’haver la figlia si vedea smarrita,
     Del suo destin doleasi, e de la sorte,
     Che tanto tempo il sostenesse in vita.
     Chiamava tutta la celeste corte,
     Ma più, ch’ad altri, dimandava aita
     À Febo, onde attendea fidel consiglio,
     Per haver dato al mal cagione il figlio.

Meraviglia non è, se non soccorre,
     Apollo il suo Chirone, e non si move,
     Ch’oltre, che contrastar non può, ne porre
     Le man dove sententia il sommo Giove,
     Non può manco pregar Giove, che torre
     Voglia le membra à lei ferine, e nove,
     Che ’l suo crudele, e temerario telo
     L’ha posto hoggi in disgratia à tutto il cielo.

Chiron non aspettar da Febo aiuto,
     Che privo è del primier divin honore,
     E gliè caso sì misero accaduto,
     Per stimar poco il suo padre, e signore,
     Col folgor Giove havea morto abbatuto
     Un, che d’Apollo fu l’anima, e ’l core,
     Un, che Febo amò già più che se stesso,
     Ma non è tempo à dir chi fosse adesso.