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agis, festína lente («fa bene quel che fai! va adagio perché ho fretta!»), ma non rimandare ad kalendas graecas! Maturo il consiglio, veloce l’azione, erano i suoi motti preferiti. Era un uomo preciso anche nella parola, come il divo Julius bonae memoriae, il grande suo parente. Per amore di precisione non esitava a ripetere le stesse parole. L’oratoria asiatica di molti senatori lo infastidiva. Quando il suo ministro Mecenate gli parlava con quei riccioli di parole effeminate, gli veniva da ridere: il popolarissimo poeta Ovidio gli faceva pena con le sue esagerazioni.

Insomma la dignità della parola e la dignità di Roma erano per Augusto un’unica dignità. Piú in là non oseremmo andare: se Augusto, quale uomo politico, fosse sospettoso dell’ingegno, specie di quella gente variabile che sono i poeti: ma il fatto di avere chiamato a collaborare con lui e Orazio e Virgilio ci fa credere che non temesse l’ingegno.


— Molto belli, molto a me graditi, — continuava Augusto, — questi vostri versi.

Aveva in mano un bastoncello di cedro con borchie d’oro, attorno al quale si avvolgevano membrane di finissima carta. Orazio, fissando gli occhietti un po’ cisposi, riconobbe il volume delle sue poesie.