Pagina:Panzini - Lepida et tristia.djvu/289

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divagazioni in bicicletta 211

pellegrini, altri si riposa nelle stanze e sotto i portici della foresteria — dove le rondini, così care al Santo, con commovente tradizione garriscono e nidificano dimesticamente — altri si perde per le profondità del bosco, altri fa divozione o visita le chiese, i santuari, gli spechi, le reliquie, i cimeli, le opere d’arte, fra cui dei cotti di Luca della Robbia, sorprendenti di purezza e grandezza, altri si riscalda in una stanza a terreno cui lungo le pareti corrono dei sedili, e in mezzo, su due alari, ardono, anche di estate, tronchi interi: il fumo esce dalla vôlta della stanza materiata a modo di enorme cappa.

I buoni frati — a quello che mi si assicura — fanno tutti i mestieri: coltivano l’orto, lavorano da falegname, da sarto, da fabbro. C’è anche il frate medico. Inoltre essi vanno alla cerca ed hanno benefattori da per tutto; e chi regala un capretto, chi un vitello, chi uno staio di frumento, chi un barile di vino. Sono ottimi massai e parsimoniosi come ognuno può sperimentare se va a mangiare lassù dove la consuetudine dà facoltà di restare tre giorni. Ma però — dirà, taluno — il vino era acido e il pranzo non era luculliano nè bastevole. Ma intanto — risponderò io — che colpa ne hanno quei buoni fraticelli se lassù vengono delle fami da lupo?

E non sarebbe bastato un tozzo di pane per serbare animo grato? Essi vi hanno aggiunto la minestra, il vino, il companatico ed il formaggio. Che si poteva pretendere di più?

E non è noto che S. Francesco viveva di radici e di un tozzo di pane accattato per carità?

E pur quella volta che S. Francesco volle esaudire il desiderio di suora Chiara, vergine così santa e a Dio diletta, dove furono imbandite le mense?

In sulla piana terra, come era usato di fare, presso Santa Maria degli Angioli; e questa è parte integra del racconto di quello spirituale banchetto: «E fatta l’ora di