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poesie serie | 15 |
XX
Quella pianta gentil, ch’avea battuta
con le folgori Giove in sul terreno,
cosí rapidamente era cresciuta
ch’i’n’avea colmo di dolcezza il seno.
Ma ’l mio compagno agricoltor veduta
non prima l’ebbe, che, d’invidia pieno,
senti pugnersi il cor d’aspra feruta,
sol volendo indiviso arbor si ameno.
Con ascosa pertanto ignobil arte
i be’ frutti m’invola, e pien di duolo
me il tronco ad adorar lascia in disparte.
Torna, o Giove, a cacciar l’arbore al suolo;
ché chi niun vuol de’ suoi piaceri a parte
ben non merta costui di goder solo.
XXI
Pendi, mia cetra umil, da questo salce
senza man che ti svegli e senza corde;
poiché a calmar le cure inique e sorde
il tuo tenero suon punto non valce.
Giá presso è Morte coll’orribil falce,
e ’l veglio che le cose atterra e morde;
né avvien, bench’i’col mio gridar gii assorde,
ch’ognun di loro non mi segua e incalce.
Miser, n’andrò fra gli amorosi mirti,
e risonar farovvi ogni pendice,
mescendo il pianto mio con gli altri spirti.
E tu ti rimarrai, se tanto lice,
tra’ pastor d’este selve incolti ed irti,
d’una piccioi conforto ombra infelice.