Pagina:Parini, Giuseppe – Poesie, Vol. II, 1929 – BEIC 1890705.djvu/132

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126 terzine


     25Te stessa illustra la bontá sua vera,
lo cui splendore un di del sozzo Averno
sgombrò in Italia la caligin nera.
     Piccol fanciullo ancor mostrò il superno
don di facondia, ond’ei poteo cotanto,
30insin ch’ei lasciò il frale ad Amiterno;
     però che pueril turba, all’incanto
tratta del suo parlar, nascer sentia
nel cor la doglia e ne le luci il pianto.
     Ma poi ch’ei giunse al sommo de la via
35che, a doppia elezione, in duo si scioglie,
la dritta ei tenne e non guardò a la ria.
     E il nobil fior, che s’altri un di lo coglie
piú non rinverde, ognor tenne si chiuso,
che invan gliel combatter non pure voglie.
     40Sassel colei che col volto confuso
da lui si diparti, da poi che in vano
gli ebbe l’intero suo pensier dischiuso.
     Quantunque fabbricar femminil mano
sa lusinghe al diletto in opra pose
45quell’arsa donna di furore insano;
     le luci armò di fiamme velenose;
dolce ad arte languí; preghi, querele...
e nulla legge ad onestate impose.
     Ma il giovin forte, come in mar crudele
50scoglio, immoto si stette; e il corpo vinse,
novo seguace al figlio di Rachele;
     anzi duro flagello in mano strinse,
e a la Venere ignuda il caldo fianco
de lo stesso di lei sangue dipinse.
     55Dritto era ben che come neve bianco
fosse l’araldo che del sommo agnello
dovea il nome dappoi bandir si franco.
     E colui che in Alvernia il gran modello
copiò di Cristo in sé, ben si compiacque
60che tanto lume ornasse il suo drappello.